Prendersi cura:utopia o realtà?

Attraverso un'adeguata assistenza si può evitare che lo scafandro in cui si trasforma il corpo di chi ha perso le proprie funzioni motorie imprigioni un'anima che nonostante tutto può e vuole continuare a volare.

Prendersi cura:utopia o realtà?

da Quaderni Cannibali

del 25 marzo 2010

 

          Il riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano criteri di discriminazione sociale e di emarginazione.

 

 

          Questo riconoscimento richiede anche concreti investimenti sul piano economico e su quello culturale, per favorire un’idea di cittadinanza allargata che comprenda tutti, come da dettato Costituzionale, e per riaffermare il valore unico ed irripetibile di ogni essere umano, anche di chi è talora considerato “inutile” poiché, superficialmente, giudicato incapace di dare un contributo diretto alla vita sociale.

          Il dolore e la sofferenza (non solo fisica) , in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non sono senza significato: l’impegno della medicina e della scienza per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico, è un compito prezioso che conferma il senso della professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico.

          Non si possono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia, questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie.

          Dobbiamo avere la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno.

          Quale migliore strumento se non la presa in carico globale per evitare tutto ciò: l’impostare una corretta relazione medico-paziente, la condivisione dell’informazione sulla malattia, sulle problematiche correlate con il paziente, con i familiari, sarà il vero strumento per un concreto accompagnamento condiviso lungo tutto il percorso di malattia.

          Ci si è sempre chiesti quali fossero le caratteristiche per identificare un buon medico: nonostante siano passati più di 500 anni, ancora attuali sono i requisiti identificati da Erasmo da Rotterdam nel XVI secolo: … abile nell’arte del curare e familiare con le risorse del corpo … che sia sincero e non abbia negli occhi altro che la salute del paziente … che sia scrupoloso e ne prenda la responsabilità.

          Ciò può corrispondere a quanto contenuto nell’art. 3 (doveri del medico) del Codice di Deontologia Medica: dovere del medico e la tutela della vita… il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana.

          Lo stesso Codice, ribadisce con gli artt. 16 e 17 il divieto all’accanimento diagnostico terapeutico ed all’eutanasia.

          Fondamentale è poi l’art. 39: assistenza al malato a prognosi infausta in cui il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psico-fisiche fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela della qualità di vita e della dignità della persona.

          Nel piano sanitario nazionale 2006-2008, nel paragrafo “il dolore e la sofferenza nel percorso di cura” viene sottolineata l’importanza di attivare gli interventi atti a promuovere l’umanizzazione delle cure nella consapevolezza che il fulcro del servizio sanitario è rappresentato dalla persona malata nella garanzia del rispetto della sua dignità, identità e autonomia.

          Per una corretta presa in carico globale fondamentale è l’identificazione di quelli che sono i reali bisogni del malato, dalla gestione del disagio emozionale alla gestione della quotidianità dei problemi correlati alla malattia, al bisogno di essere ascoltati.

          A volte non ci chiediamo il perché un malato chiede di essere aiutato a morire. Può essere un suo desiderio legato alla perdita del significato della vita, ad una sua disperazione esistenziale, ad una perdita di dignità. Dalla letteratura scientifica (Kelly, Psychosomatics, 2004) si evince come il desiderio di anticipare la morte, nel malato di cancro terminale, sia significamene correlato con la sua percezione di essere di peso per gli altri, un senso di depressione ed una bassa coesione familiare.

          Ma può essere anche un atteggiamento del medico che si scontra con la sua impotenza a guarire, la paura di condividere con il malato il percorso terapeutico che può sfociare in una sorta di rifiuto ed aggressività, sino ad un vero e proprio accanimento.

          Ma c’è anche chi chiede di essere aiutato a vivere: sia il malato che il medico possono giocare un ruolo fondamentale; il malato con le sue motivazioni, il medico con la reale presa in carico.

          Strumento fondamentale per la presa in carico sono le cure palliative il cui scopo è quello di migliorare la qualità di vita assicurando ai pazienti e alle loro famiglie un’assistenza continua e globale.

          Non dimentichiamoci, inoltre, delle persone in stato vegetativo permanente, che per vivere dobbiamo loro erogare ciò che anche a noi è indispensabile: acqua e cibo, igiene, movimento, calore umano.

          Quando una vita è degna di essere vissuta? La dignità della vita, di ogni vita, è un carattere ontologico dell’essere umano e non dipende dalla qualità della sua vita, vista solo come un concetto utilitaristico.

          Non si deve dimenticare l’interesse primario per il malato: “l’interesse ed il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse della Società o della Scienza” (Art. 2 Convenzione di Oviedo, 1997).

          Rendere complicato ciò che è semplice è una banalità ma rendere semplice ciò che è complicato è la creatività, così diceva Charles Mingus, grande jazzista e malato di SLA. E per questo che ci vuole coraggio per vivere e far vivere ed è questa una chiara richiesta di creare una rete per garantire una presa in carico globale di trattamento, cura e sostegno, evitando l’abbandono assistenziale e contro l’accanimento diagnostico e terapeutico e l’eutanasia nel nostro paese.

          A volte può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative.

          La malattia, l’evento traumatico, non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’“essere” conta di più del “fare”.

          Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro, ma se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti.

          Attraverso un’adeguata assistenza si può evitare che lo scafandro in cui si trasforma il corpo di chi ha perso le proprie funzioni motorie imprigioni un’anima che nonostante tutto può e vuole continuare a volare.

          E’ questo il messaggio che una società che ambisca realmente ad essere a misura d’uomo deve raccogliere e recepire.

          Un corpo malato, disabile non può diventare in nessun caso un fattore di isolamento, esclusione ed emarginazione dal mondo. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute, di disabilità, rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia; questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati, dei disabili e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società.

          Purtroppo, oggi, una certa corrente di pensiero ritiene che la vita in certe condizioni si trasformi in un accanimento ed in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come ad un dono ricco di opportunità e di percorsi inesplorati prima della malattia.

          A volte siamo così concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza delle persone e della cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre. Così, quando è la malattia a fermarti bruscamente, può accadere che la propria scala di valori cambi. E che ci si renda conto che quelli che noi, fino a quel momento, consideravamo i più importanti invece non erano proprio così meritevoli dei primi posti.

          In questi tempi in cui si parla sempre più, con scarsa chiarezza, di diritto alla morte, del principio di autodeterminazione, di autonomia del paziente, si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano o diventino criteri di discriminazione sociale e di emarginazione.

          Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società, forniscono quotidianamente delle risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che vanno e devono essere implementate e potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico.

          La domanda di senso di un’esistenza è strettamente correlata alla possibilità di esprimersi e, soprattutto, al fatto che ci sia o meno qualcuno a raccogliere i messaggi inviati. Non bisogna lasciare che siano la trascuratezza, l’abbandono e la solitudine a decretare una vita indegna di essere vissuta.

          Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita.

Mario Melazzini

http://pastoralesalutepd.it

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