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del 14 dicembre 2011
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Tra i classici della tradizione salesiana.A partire dalla morte di don Bosco, la preoccupazione dominante dei suoi figli, e di tutti coloro che in qualche modo si sentono chiamati a prolungarne nel tempo lo spirito, è stata quella di custodire e sviluppare fedelmente, senza deformazioni ma anche senza arresti, il suo carisma. Questo prezioso compito ha dato origine ad una massa di scritti a dir poco imponente: si parla di oltre mille biografie del santo, con più di trentamila pubblicazioni divise tra opere di documentazione, studi e lavori di divulgazione.
Di questo abbondantissimo materiale, non tutto merita di essere ricordato. Ma oramai la tradizione salesiana possiede i propri classici: i libri che si impongono per rigore scientifico, o per finezza di intendimento; i libri che non invecchiano, perché sanno illuminare e scuotere le coscienze oggi quanto lo fecero al loro tempo. Il Don Bosco con Dio di don Eugenio Ceria ne rappresenta uno tra i migliori.
Passato attraverso due edizioni, una piuttosto breve, e l'altra, definitiva - arricchita di cinque nuovi capitoli e ritoccata nei dettagli - che risale al 1946, questo eccellente libretto ha cominciato a prendere forma nella mente dell'autore in seguito alla constatazione, molto significativa e tuttora attuale, della scarsa attenzione prestata alla vita interiore del santo prima e dopo la sua morte. «Rapiti dalla vista dei prodigi della sua multiforme attività», scrive seccamente don Ceria, «i contemporanei ne ammirarono i trionfi senza quasi por mente che omnis gloria eius ab intus. Anche la generazione venuta su dopo la sua morte ha guardato di preferenza alle opere di don Bosco, studiandone le forme e gli sviluppi, senza darsi guari pensiero di scrutarne a fondo il principio animatore, quello che ha costituito sempre il gran segreto dei Santi: lo spirito di preghiera e di unione con Dio».
Già allora, come adesso, bisognava mutare registro, passando dai frutti visibili di un albero generalmente ammirato, ma troppo poco scrutato, alle radici nascoste di tanta fecondità. Occorreva «sollevare un lembo» del velo «di una vita che in apparenza si svolgeva come altre consimili, ma che in realtà nascondeva tesori di grazie e di doni soprannaturali».
 
Risorse di un autore.
Don Ceria lo ha fatto con grande determinazione ed intelligenza, giocando su cinque diversi fattori di composizione.
Innanzitutto, si è avvalso della competenza acquisita dalla relazione dei volumi delle Memorie Biografiche che portano la sua firma. In secondo luogo, si è applicato ad un paziente lavoro di rivisitazione delle fonti, orali e scritte, a sua disposizione, per «riandare con affetto di figlio esempi ed insegnamenti del Padre», e fissarsi «su ogni particolare che sembrasse degno di menzione circa la sua vita di unione con Dio».
Nel far questo - e siamo al terzo fattore - ha messo a frutto le possibilità che gli venivano dal trovarsi in un ambiente che ancora viveva dei ricordi diretti di importanti collaboratori di don Bosco. E vi ha aggiunto il filtro di discernimento e la chiave di lettura assicurati da una buona conoscenza dei principi fondamentali della teologia spirituale, nella prospettiva, per fare qualche nome, di un san Tommaso d'Aquino o del gesuita A. Poulain.
Infine, si è largamente servito dei suggerimenti che gli erano ispirati dalla propria finezza di intendimento spirituale.
 
Un piccolo saggio di teologia spirituale.
Ne è risultato un lavoro che si mostra esemplare, pur nella modestia degli intenti, non solo dal punto di vista della edificazione propriamente intesa, e cioè della capacità mistagogica di illuminare la mente e muovere la volontà dei lettori, ma anche da quello specificatamente scientifico della teologia spirituale, rigorosamente compresa come teologia della esperienza cristiana.
Uno sguardo all'indice ci aiuta a provarlo. Ma si impone una premessa. Grazie al proprio carattere di studio critico della appropriazione soggettiva personale del messaggio oggettivo della fede (di pertinenza della teologia dogmatica e morale), la teologia spirituale coniuga il metodo induttivo storico, rivolto alla concreta vicenda di un soggetto spirituale, con il metodo deduttivo sistematico, richiesto dalla presenza di una forma autentica di vita cristiana. Fondandosi sulla storia, essa suppone una biografia. Interpretandola in chiave di fede, essa esige un accostamento teologico.
In tale prospettiva, non mancano autori - ad esempio H.U. von Balthasar - che identificano la teologia spirituale con l'agiografia teologica. Ebbene, i venti capitoli del saggio di don Ceria si muovono interamente su questa linea, includendo, e componendo in unità, tanto la biografia quanto la riflessione sistematica di indole teologica.
Il dato biografico si fa palese già nella titolazione dei primi sette capitoli, dedicati alla vita di don Bosco fanciullo, in famiglia ed a scuola; poi giovane, in seminario; e poi prete, nel principio della sua missione, nella sua seconda tappa, nella sede stabile, e nel periodo delle grandi fondazioni. E si allarga al capitolo diciannovesimo, che ne considera il «placido tramonto». Il dato sistematico, invece, si fa luce specialmente a partire dal capitolo ottavo, con una sequenza di ritratti tesi ad illustrare dapprima la forza del santo nelle prove della vita, e poi le sue caratteristiche di confessore, predicatore, scrittore, uomo di fede, ed apostolo della carità, ricco di doni ordinari e straordinari; sino alla sottolineatura della connotazione profondamente sacerdotale della sua santità.
 
Fisionomia di un santo.
Dall'intreccio delle due componenti, condotto non soltanto nella partizione segnalata, ma anche al suo interno, entro la nervatura che attraversa la totalità del saggio, scaturisce una identità spirituale stabilita con chiarezza sui tre assi portanti del rapporto con Dio, del rapporto con il prossimo e del rapporto con se stesso.
Il punto cardine del volto spirituale di don Bosco è ravvisato, senza esitazioni, nella verità di una intensissima incessante unione con Dio, alla quale tutto fa capo. Tanto basta a giustificare il titolo generale dell'opera.
Da questo fondamento deriva la ferma preminenza concessa alla fede, sia sul versante del consenso esistenziale che su quello dell'assenso intellettuale. Perfettamente consapevole della assolutezza salvifica di Dio, don Bosco si rivela uomo che vive di fiducia nel Signore e di affidamento alla sua iniziativa; che esprime questa sua opzione in una forte devozione mariana; e che non lascia occasione di incrementarla, in sé e negli altri, anche dal punto di vista dottrinale. Animato dalla convinzione che Dio fa tutto facendo fare tutto, egli si colloca agli antipodi della concezione riduttiva di stampo protestante che ritiene sottratto a Dio quello che viene concesso all'uomo, e traduce la completezza della sua concezione nella simultanea richiesta di una sentita schietta umiltà e di un crocifiggente vincolo di incessante lavoro: la prima come conseguenza del sapere che tutto dipende e proviene da Dio, ed il secondo come accettazione del progetto di Dio di coinvolgere pienamente l'uomo nella sua azione di salvezza.
Il piano del rapporto con Dio, rimanda, pertanto, al piano del rapporto con gli uomini. La fede collaborante di don Bosco diventa impegno incondizionato per la salvezza delle anime. Impegno che don Ceria coglie soprattutto in tre ambiti: quello della opposizione instancabile al potere del peccato, unica disgrazia radicale dell'uomo perché male rivolto contro la sua verità più intima; quello della coltivazione della amorevolezza, e cioè di un amore del prossimo non solo reale ma anche percepibile ed attraente; e quello della alimentazione, nei preti, di una vita pienamente sacerdotale, fatta di apprezzamento della propria vocazione, di stima della dignità degli altri preti, di sollecitudine nei loro confronti, e di crescita del senso della Chiesa e del papa.
Condizione, ma assieme conseguenza, della retta impostazione del rapporto fondamentale con Dio e di quello derivato col prossimo viene ad essere il giusto inquadramento del rapporto con se stessi. Per questo aspetto della vita concreta di don Bosco, don Ceria dà risalto alla compresenza pasquale della morte (pazienza e mortificazione) e della risurrezione (gioia interiore ed allegria esteriore), rilevando l'eccezionale livello raggiunto dal santo in entrambe.
 Il segreto di don Bosco: lo spirito di preghiera.Rintracciate le linee portanti del ritratto spirituale di don Bosco disegnato da don Ceria in queste pagine, ci pare utile soffermarci un tantino più in dettaglio, per facilitarne la lettura, sulla sequenza di idee che le danno sostanza.
Il punto di partenza si trova, come già sappiamo, nell'instancabile spirito di preghiera di don Bosco. Don Ceria documenta sia la sua realtà che la sua centralità.
A prova della sua realtà, egli adduce l'atteggiamento del santo, abitualmente impregnato di Dio, la sua «facilità a parlare di Dio con sentimento verace», la forza eccezionale da lui dimostrata nei travagli della vita, il solido spirito di pietà presente nei suoi discepoli, e la costante proiezione della sua azione educativa sulla promozione della vita spirituale. Come risulta dalla testimonianza dei contemporanei, scrive, «l'amore divino gli traspariva dal volto, da tutta la persona e da tutte le parole che gli sgorgavano dal cuore». Era sua massima «che il sacerdote non dovrebbe mai trattare con alcuno senza lasciargli un buon pensiero». Sopportava ostacoli, inciampi e disgrazie con tale forza che «quando appariva più gaio e più contento del solito, i suoi collaboratori, edotti dall'esperienza, si sussurravano con pena all'orecchio: oggi don Bosco deve essere in qualche imbarazzo ben serio, giacché si mostra più lieto dell'ordinario». Abituò i suoi aiutanti a pregare devotissimamente, a tal punto da sembrare «che non sapessero dire quattro parole in pubblico o in privato senza farci entrare in qualche modo la preghiera». Riteneva che senza l'elemento religioso «l'educazione non solo era senza efficacia, ma non aveva nemmeno significato».
Per la conferma della centralità attribuita alla preghiera, don Ceria cita le soluzioni conferite dal santo ai rapporti preghiera ed azione e preghiera e studio, e ricorda il suo grande apprezzamento per le pratiche di pietà.
Sul primo versante, constata che don Bosco non separò preghiera ed azione, ma neppure mai leconfuse. Tramite la preghiera di ogni momento (giaculatorie, aspirazioni interiori, eccetera) trasformò ogni attività in orazione; senza cadere nell'illusione di «supporre che il prodigarsi a vantaggio del prossimo dispensi dall'obbligo di trattare assiduamente ed interiormente con Dio».
Sul secondo versante, riferisce che don Bosco si regolò sul principio che «per ecclesiastici lo studio è mezzo, non fine a sé, e mezzo di second'ordine per fare del bene alle anime, dovendosi mandare innanzi a tutto la santità della vita»; per cui «fu lungi mille miglia dal subordinare all'amore del sapere lo spirito di preghiera».
E rispetto alle pratiche di pietà, rammenta che egli «si scrisse e prescrisse un regolamento di vita chiericale in sette articoli», dei quali «il sesto era così concepito: oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un poco di lettura spirituale».
 
Il rapporto con Dio.
Dall'incessante unione di don Bosco con Dio, don Ceria fa derivare prima di tutto la sua grande fede, il si della volontà a Dio, che genera la fiducia incrollabile e la stabile convinzione della paternità onnipotente del Signore. Nessuna difficoltà o strettezza gli toglieva la pace, dice, perché egli ragionava così: «di queste opere io sono soltanto l'umile strumento, l'artefice è Dio. Spetta all'artefice, e non allo strumento, provvedere i mezzi per proseguirle e condurle a buon fine. Egli lo farà quando e come giudicherà meglio; a me tocca solo di mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani».
Tuttavia «era sua massima che anche la Provvidenza vuol essere aiutata dai nostri sforzi; onde, nel cominciamento delle sue opere, prevedeva già sempre di doversi dare attorno. Non bisogna aspettare l'aiuto della divina Provvidenza stando neghittosi, soleva dire. Il Signore si muove in soccorso quando vede i nostri sforzi generosi per amore suo».
Prova particolarmente evidente di questa concezione squisitamente cattolica del rapporto dell'uomo con Dio, nella quale il Deus solus diventa numquam solus perché l'azione di Dio si incarna perennemente nella mediazione umana, fu l'intensa devozione nutrita da don Bosco nei confronti della Madonna venerata col titolo di Ausiliatrice. Nella preghiera di don Bosco, santo di una orazione che si trasforma immediatamente in azione, sta sempre in primo piano la coscienza della potenza operativa di Maria. «Don Bosco non è nulla, ripeterà egli fino all'ultimo respiro: chi ha fatto tutto è la Madonna». Nella sua mente, il ruolo della beata Vergine, lungi dal ridursi ad una funzione di sola esemplarità, include anche la dimensione del sostegno operativo della vita dei credenti: mai confuso con quello di Dio, o peggio messo in alternativa con esso, e però fermamente riconosciuto, quale riflesso della comunione della creatura col Creatore. Per lui l'Ausiliatrice fu la rivelazione del potere di Dio di suscitare una vera capacità di salvezza nelle sue creature.
Le conseguenze di una simile lettura di fede si fanno particolarmente visibili nell'impulso dato dal santo alla pratica congiunta dell'umiltà e del lavoro. È un fatto, spiega don Ceria, che don Bosco morì letteralmente di lavoro. «La sua salda costituzione fisica gli avrebbe permesso di vivere anche fin oltre i novant'anni; invece si consumò in un improbo lavoro diurno e notturno». E volle che il medesimo spirito di laboriosità si perpetuasse nella congregazione salesiana; perché vi riconobbe la maniera richiesta da Dio di riprodurre l'obbedienza di Gesù sino alla morte, e perché lo vide come prima e fondamentale attuazione della ascesi cristiana e come risposta efficace da dare alle contestazioni rivolte contro la vita religiosa. Egli però «temeva, temeva assai, che l'efficacia ed il merito del lavoro andassero in fumo per l'infiltrarsi della volontà propria» e della ricerca di sé. Perciò, pur raccomandando di dire sempre ai salesiani che lavorassero con ardore, subito aggiungeva, come ad evitare equivoci, che bisognava «adoperarsi indefessamente a salvare anime».
 
Il rapporto con gli uomini.
Così, l'amore di Dio si legava con naturalezza all'amore del prossimo, ed in esso si verificava: il secondo grande esito dell'intensa pratica di preghiera compiuta da don Bosco consiste precisamente nell'amore dei fratelli, messo in evidenza dallo zelo per la salvezza delle anime.
«Giovanni Bosco» scrive don Ceria «nutriva dentro di sé una pietà fatta come il bene, del quale si dice che è per natura diffusivum sui. Vedere una persona, e pensare subito a renderla buona o migliore nel senso più strettamente cristiano della parola» era per lui un tutt'uno. Questo perché l'ardente unione con Dio lo portava logicamente a condividere l'amore di Dio per gli uomini: dei quali don Bosco amò veramente tutto, il corpo e l'anima, la mente ed il cuore, i valori naturali ed i doni di grazia, pur privilegiando sempre, grazie alla lucidità che gli veniva dalla fede, ciò che è più importante, e cioè la santità.
È il motivo per cui il santo non cessò di interpretare il peccato come la massima disgrazia dell'uomo, e di opporsi con ogni sforzo alla sua diffusione. «Contro il peccato», afferma don Ceria, «don Bosco impegnò per tutta quanta la vita una guerra a fondo». Nei suoi confronti ebbe reazioni fortissime, giudicate esagerate dallo spirito del mondo, ma giustificate dal fatto che egli «ardeva del divino amore, ed in ogni peccato sentiva l'offesa fatta a Dio»; giacché, quando si amava veramente, nessuna offesa fatta all'amato pare piccola, e nessun sacrificio compiuto per rimuoverla sembra eccessivo.
Don Bosco sapeva bene, peraltro, di essere chiamato da Dio ad amare soprattutto i giovani; i quali «hanno bisogno, nel periodo della loro formazione, di sperimentare i benefici effetti della dolcezza sacerdotale». Questo lo indusse a non perdere mai di vista «tre massime ispirategli dal suo cuore sacerdotale, e ricordate incessantemente ai suoi, per cattivarsi l'affetto e la confidenza dei giovani: amare quello che essi amano, e così ottenere che amino loro pure quello che amiamo noi per loro bene; amarli in modo che conoscano di essere amati; porre ogni studio affinché mai nessuno di essi parta da noi malcontento». Così, scelse per metodo educativo «la bontà sapientemente e soavemente adattata all'età giovanile», ed elevò «la paternità spirituale al più alto grado».
Tutto ciò senza cadere in preclusioni o riduzionismi di alcun genere. La sua predilezione per i giovani, aggiunge don Ceria, non escluse ma anzi rese ancor più vivi altri interessi paralleli. Tra i quali si fa luce quello mostrato nei confronti dei sacerdoti, a cui don Bosco diede soddisfazione con uno straordinario programma di promozione delle vocazioni ecclesiastiche, e con un intenso - quanto poco conosciuto - impegno di sostentamento dei sacerdoti bisognosi materialmente e spiritualmente, o comunque in difficoltà.
La sua sensibilità per quanto toccava la Chiesa, del resto, era ben nota. Don Bosco non volle mai essere altro che un prete: e del prete ebbe, fortissimo, il senso della Chiesa, la comprensione del ministero del papa, e, per l'appunto, la stima della missione sacerdotale.
 
Il rapporto con se stesso.
Parlando delle tre massime adottate da don Bosco per l'educazione dei giovani, don Ceria commenta: «Si fa presto ad enunciare simili aforismi, più presto ancora ad applaudirli; attuarli, invece, costa continui e non lievi sacrifici».
Le due dimensioni finora considerate rimandano ad una terza: la vicinanza di don Bosco a Dio, e l'intenso amore del prossimo ad essa conseguente, non si spiegano senza una profonda componente ascetica di sacrificio, di distacco, di dimenticanza di sé, e di pazienza. Per commentarla, don Ceria redige due dei capitoli più suggestivi e commoventi del suo lavoro: il capo ottavo, dedicato alla conside razione delle sofferenze morali e fisiche del santo, ed il capo nono, riservato alla presentazione delle avversità della sua vita.
Il ritratto che ne emerge è tale da scuotere salutarmente qualunque lettore, anche quello più contaminato dai principi della società del benessere. Ben oltre i facili trionfalismi che sovente ne deformano la figura, il santo mostra il suo vero volto di autentico discepolo del Crocifisso, curvo sotto il peso di croci inaudite che toccano il cuore.
La vita di don Bosco, dice don Ceria, «fu tutta quanta seminata di pungenti spine»: incomprensioni, contrasti, persecuzioni, perfino attentati, strettezze economiche; e poi malanni fisici così gravi da far dire al suo medico curante che «dopo il 1880 circa, il suo organismo era quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante».
Eppure, «non perdeva mai la sua serenità; anzi pareva che appunto nei tempi di tribolazione egli acquistasse maggiore coraggio, giacché lo si vedeva più allegro e faceto del solito». Né chiedeva di essere liberato dai suoi mali. «Per una cosa», riferiscono i contemporanei, «don Bosco non pregò mai: per la guarigione delle infermità che lo travagliavano, pur lasciando che pregassero gli altri, ad esercizio della carità». Il motivo di una condotta così sconcertante, spiega don Ceria, è relativamente semplice: «Le sofferenze fisiche accettate con si perfetta conformità al volere di Dio sono atti di grande amore divino e penitenze volontarie», e «le anime che verso Dio si sentono fortemente trasportate si danno alla mortificazione quasi per irresistibile istinto di amore».
Lo confermano i frutti di tanto travaglio. Nel paradosso cristiano il dolore si trasforma misteriosamente in trascendente fonte di gioia. Ebbene, l'associazione alla morte del Signore realizzata dalle sofferenze di don Bosco si accompagnò costantemente all'evento pasquale di una perenne letizia del cuore. E la gioia fu la méta della sua opera educativa.
 
Attualità del lavoro di don Ceria.
Rivolgendosi ai lettori del suo libro, don Ceria confida di averlo scritto per confutare un grossolano malinteso connesso alla esaltazione di don Bosco come santo moderno. «In questi tempi di operosità febbrile», scrive, «chi parla così ha tutta l'aria di volercelo vantare come il santo dell'azione, quasi che la Chiesa, da san Paolo ad oggi, non abbia avuto sempre santi attivissimi, e come se ai giorni nostri un santo di azione debba o possa fare a meno di essere insieme uomo di orazione», quando invece «non si dà santità senza vita interiore, né si darà mai vita interiore senza spirito di orazione».
Certo, l'azione in don Bosco ci fu, e raggiunse livelli che sanno dell'incredibile. Ma venne dalla sovrabbondanza della vita interiore.
Anche oggi la febbre dell'azione è alta, più che mai. Si parla continuamente della necessità di vivere con i giovani, di entrare nei loro problemi, nelle loro sensibilità, nelle loro esigenze. E bisogna che così avvenga. A che giova, però, mettersi tra i giovani e condividerne la ricerca, se si è poveri, od addirittura vuoti, di risposte veraci? Ed in che cosa possono ultimamente consistere tali risposte, se non nello stare con i giovani alla maniera significativa di don Bosco, ossia con le qualità interiori che don Ceria riaddita in lui?
Scorrendo le pagine del Don Bosco con Dio, si sperimenta al vivo un contrasto di mentalità e di pratica di vita con le sensibilità e gli atteggiamenti odierni che talora mette i brividi. È l'occasione buona per rimettersi in discussione, e lasciarsi indurre salutarmente in crisi dalle istanze di verità che presenta. Per questo viene riproposto. Per questo ancora, domanda di essere ricevuto con la considerazione concessa ad un autentico dono dello Spirito.
Don Giorgio Gozzelino sdb.
Torino, giugno 1988.
Eugenio Ceria
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