Si inizia sempre da qualche parte o dall'inizio o dalla fine. O da una sconfitta o da una vittoria...
Si inizia sempre da qualche parte o dall’inizio o dalla fine. O da una sconfitta o da una vittoria.
Spesso i cammini più belli cominciano dalla privazione totale, dalla povertà assoluta, da una dimensione che fa più paura proprio perché è solitaria e angosciante secondo il metro medio della società contemporanea. Dobbiamo avere, dobbiamo mostrare, dobbiamo interfacciare la nostra splendida merce in prima pagina con i nostri avventori e quello schema fatto di antropocentrismo esasperato diventa il nostro metro di giudizio per tutto, per l’amore, per le menzogne che spesso diciamo a noi stessi e agli altri, per tutte le cose che abbiamo perso e non vogliamo ammetterlo, per quel desiderio di rivalsa sociale che travestiamo da generosità. Ci ergiamo ad idoli, il nostro male non è il male assoluto del mondo ma la nostra volontà di ricchezza e controllo che mano mano ci svuota, ci rende isolati col mondo reale e ci porta in una condizione dove i simboli, la rappresentazione del nostro “io”, diventa misura di tutte le cose.
Abbiamo molti strumenti per generare questo, i social, i messaggi, le riunioni di lavoro. Mi domando spesso da quanto tempo non incontro una persona che mi prende per un braccio e mi dice “sono un povero, ho fallito, sto cambiando”. Visto che nessuno lo fa, spesso lo faccio io, perché essere figli di una generazione dove il relativismo etico e morale è la regola porta a questo, porta a diventare giudici ed arbitri delle proprie vite e di quelle altrui, porta ad essere schiavi del pensiero unico e della dittatura del compromesso: cedere un po’ per volta noi stessi per realizzare qualche bel compitino. Così si muore o almeno così stavo morendo dilaniato dalla rabbia, dalla volontà di controllo, dalla malattia simbolica della mia anima e del mio spirito, corrotto da una tabella di marcia in cui non solo ero esclusa la mia parte migliore, ma soprattutto Dio, quell’entità che ero pronto a bestemmiare in ogni situazione, quello che ogni tanto passavo a trovare in Chiesa perché “io credo a modo mio e siccome sono più fico di tutti posso permettermelo”, quel Dio buono solo non per affidare le mie intenzioni ma i miei desideri quasi come se fosse il genio della lampada, quel Dio “che per fortuna che ora c’è Papa Francesco che è tanto simpatico”, quel Dio che mentre mio padre moriva a mio avviso ce l’aveva con me. Si, perché ad un certo punto pensi di essere così importante, sei arrivato ad un livello di idolatria di te stesso tale che pensi che con Dio devi ingaggiare un conflitto a fuoco.
Quando mio padre morì ormai più di un anno fa non colsi la grazia di quella partenza, di quella chiamata, ci ho messo molto, rovinando parecchio a comprendere che era uno spartiacque, che non serviva proteggersi ma essere protetti, che non si smette mai di essere figli neanche quando si ha l’età per diventare padre. Pensavo che la malattia fulminante di mio padre fosse la peggiore del mondo, senza pensare agli esempi di Chiara Corbella Petrillo o di tanti altri che vivono la loro vocazione difficile dentro un reparto di ospedale. Però che Dio è bellezza forse l’ho scoperto lì, all’inizio della mia povertà, che Dio sana e cura, accoglie e guarisce l’ho appreso là dentro in un reparto di oncologia di un Policlinico militare, ora rivedo davanti a me tantissimi passi del Vangelo.
C’era Gianni, infermiere e buon samaritano, c’era Barabba nella stanza di mio padre, c’era un esercito di pie donne e i dottori che non hanno potuto far altro che accompagnarlo alla casa del Padre. Ed in mezzo c’ero io, smarrito, una pecora senza pastore che finge di essere pietra angolare. Non mi sono arreso alla mia povertà ha continuato a far finta che fosse ricchezza, fino a quando quel Dio a cui rimproveravo molte cose mi venne in soccorso e mi tolse ogni macigno dal cuore. Oggi non sono ne migliore e ne peggiore di quando bestemmiavo,di quando trattenevo il mio lavoro con le unghie, di quando sparlavo del prossimo e di quanto deliberatamente anteponevo il relativismo alla rettitudine, ma le cose che ho compreso in questi lunghi mesi forse sono dieci volte di più di quanto non ne abbia comprese nell’arco dell’esistenza intera.
Quando comprendi che una morte è meno potente della bellezza della vita che continua, quando comprendi che una morte può essere vocazione, chiamata, amore, quando capisci che le tue povertà sono più belle delle tue presunte ricchezze e che il perdono che chiedi non è figlio della retorica ma del pentimento, allora lì sai che sbaglierai ancora, sbaglierai forte, ma non sei più da solo. Ho lasciato le ansie di una vita ipersociale nel burrone della tristezza, ho arso quello che pensavo di me irrinunciabile con la preghiera nella Porziuncola ad Assisi, perché Dio per parlare trova molti modi, molte intuizioni, molta bellezza. Con me ha rovesciato i tavoli, mi ha sbattuto in faccia tutto il suo amore, la sua accoglienza. Ero un uomo senza patria ma con molti idoli, ero un profugo, il mio barcone che sbatteva addosso alle coste di un Paese di cui non sapevo la lingua si è arenato e sono arrivato con fatica, quasi morto alla sua parola. Non ho mai creduto alle conversioni light, credere è una conversione ad “U” nella vita, scompagina tutto, porta a vivere l’amore, la vita, il dolore con occhi nuovi. E’ come se improvvisamente ti accorga di quanto è bello farsi fotografare invece che fotografarsi da soli, di quanto è bello guardare una foto fatta con amore invece che scrutare le nostre espressioni di plastica in un selfie. E’ bello essere amati, è bello essere guidati, è bello essere senza ansie inutili, guidati da qualcosa di più grande.
Dio c’è sempre stato nella mia vita, è innegabile, anche quando lo negavo, ma da mesi non esiste più solitudine che non può essere colmata, ferita che non può essere rimarginata, parola che non può essere riscaldata, bellezza che non possa essere vissuta ed ho compreso che la cosa più difficile per noi, giovani relativisti, selfisti, agnostici della domenica e cattolici del lunedì, è proprio affidarsi, rimettere, offrire, dare, concedere, non programmare. E’ passato un anno da quando ho salutato mio padre, ho commesso molti errori per non essere più figlio e negli errori ho capito che non si può essere padre senza essere figlio e che poi poco possiamo senza lo Spirito Santo. Per questo sbaglierò ancora, ma guardando dentro le nostre povertà e non nelle presunte ricchezze, perché quando pensi che la morte sia l’unica strada la resurrezione è dietro l’angolo.
Massimiliano Coccia
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