Quando felicità non fa rima con benessere

Possiamo interrogarci su quale sia il rapporto tra economia e felicità...ma si scopre che il rapporto tra i due fattori non è direttamente proporzionale. Molte esperienze di mercato solidale e il recupero del valore della gratuità possono dare un nuovo volto all'economia e quindi ricondurla nell'alveo della felicità. relazione del prof. Luigino Bruni - docente di Milano Bicocca

Quando felicità non fa rima con benessere

da Teologo Borèl

del 27 marzo 2007

Uno dei fatti più significativi nelle scienze sociali degli ultimi anni è il ritorno del tema della felicità. Si tratta di un “ritorno” perché la felicità è una parola antica, non solo per la filosofia (dove è stata sempre di casa), ma anche in economica. Se non vogliamo risalire addirittura ad Aristotele o agli umanisti civili del Quattrocento, dobbiamo comunque constatare che la prima stagione della felicità in economia risale agli albori della scienza economica nel Settecento, autori che definirono la nascente scienza economica come la “scienza della pubblica felicità”. L’idea, che conserva oggi tutta la sua attualità, era semplice ma rivoluzionaria: la felicità è pubblica perché mentre posso essere ricco da solo, se voglio essere felice posso essere solo con e grazie agli altri: non si può essere felici da soli.

Il tema della felicità sta cambiando, silenziosamente ma decisamente, il modo di intendere l’economia del benessere. Fin dai primi studi negli anni ‘70 del XX secolo è emerso il “paradosso della felicità” in economia, cioè l’inesistente, o troppo piccola, correlazione tra reddito e benessere soggettivo delle persone, o tra benessere economico e benessere generale. Prima di questa stagione di studi sulla felicità, l’ortodossia economica recitava: “se hai più reddito o consumo il tuo benessere deve aumentare, altrimenti peggio per te!”. Oppure, in altre parole, alla crescita economica si può chiedere di portare ricchezza e benessere, non la felicità. Se però la ricchezza produce infelicità allora il discorso diventa tremendamente più complicato. Con il termine “Paradosso della felicità”, al di là delle diverse teorie e interpretazioni, si afferma che, una volta che il reddito pro-capite ha superato una data soglia (quella che consente di vivere in modo “decente”), non è più un fattore importante nella felicità soggettiva delle persone, o, in ogni caso, lo è molto meno di altri fattori, tra cui la vita relazionale e famigliare. (NdT: Ricerche attuali hanno messo in parallelo i paesi più ricchi e i paesi dove la popolazione si considera più felice e le due classifiche non combaciano, quindi benessere≠felicità).

Circa la spiegazione del “paradosso della felicità”, è interessante notare, in primo luogo, che nel dominio dei beni materiali l’adattamento e le aspirazioni hanno un effetto quasi totale: gli aumenti di comfort vengono assorbiti, dopo un tempo più o meno breve, quasi completamente. Questi effetti determinano quindi una “distruzione di ricchezza”, o, meglio, un uso non efficiente della stessa. Inoltre, è stato empiricamente dimostrato che le persone altruiste sono mediamente più felici di quelle egocentriche, e che chi fa regolarmente volontariato è in genere una persona che si considera felice, e — cosa interessante - che viene considerato felice anche dagli altri.

Una domanda cruciale va però subito posta: quale felicità e quale socialità hanno in mente gli studiosi che oggi cercano di spiegare il paradosso della felicità in economia? In linea generale le teorie appena esposte soffrono, in gradi diversi, di un forte riduzionismo antropologico. Qui l’individuo umano è sostanzialmente invidioso, e gli piace rivaleggiare con gli altri attraverso i beni. Nessuno nega che l’essere umano non sia anche questo; l’errore, però, consiste nel pensare che l’invidia e la rivalità possano essere le caratteristiche antropologiche fondamentali per spiegare la felicità umana. A questo punto può sorgere però una domanda: ma perché esseri razionali, che apprendono dai propri errori, non dovrebbero capire che starebbero meglio con minor reddito e più gratuità-relazionalità? Lo sviluppo economico e tecnologico agisce in due direzioni, entrambe rilevanti per il discorso che stiamo facendo. In primo luogo la tecnologia tende a ridurre i costi dei beni di mercato standard, mentre non fa altrettanto con i beni relazionali, la cui “tecnologia”, i costi e i rischi sono più o meno gli stessi negli ultimi millenni. Come conseguenza, il costo relativo dei beni relazionali tende quindi ad aumentare nei paesi a tecnologia avanzata. Coltivare rapporti significativi con altri è oggi molto costoso nelle moderne economie di mercato, perché troviamo sostituti dei beni relazionali a costi tremendamente più bassi. In secondo luogo, la crescente efficienza dei mercati genera una forte tendenza a separare il bene relazionale dai beni di consumo standard. La logica dei prezzi e dei costi applicata anche alla relazionalità umana, la trasformazione dei valori in prezzi, produce in noi stessi e negli altri dei costi sociali, etici e spirituali che non sappiamo contabilizzare, ma basta guardare la nostra esistenza da vicino per vedere quanto si sta impoverendo di rapporti autentici e di significati. Le nostre società stanno aumentando la libertà di scelta tra vari beni e merci, ma stanno riducendo, in un modo drammaticamente preoccupante, il presupposto stessa di un vita davvero felice, aumentando le solitudini e i falsi rapporti con gli altri.

Per salvare i rapporti genuini con gli altri occorre uscire dai mercati, difenderci dall’economia, o è possibile che il mercato non distrugga e, magari, favorisca la creazione di beni relazionali? Esperienze come quella dell’Economia di comunione, del commercio equo e solidale, della microfinanza etica, e molte altre mostrano che, ben prima delle teorie, l’economia di mercato può incontrarsi con la relazionalità genuina. Il messaggio della tradizione italiana dell’economia civile è infatti pluralista e multidimensionale, e per questo contraria ad ogni visione manichea o dicotomica che divide gratuità e mercato, Il bene relazionale non è un contratto, ma può convivere con i contratti e con i mercati, quando noi siamo capaci di trasformarli dal di dentro con una rivoluzione culturale, dal basso e silenziosa, come è quella che si assiste tutte le volte che l’economia autenticamente sociale e civile sono all’opera. Il paradosso della felicità è paradosso di relazionalità genuina e, dunque, paradosso di gratuità. Un paradosso, però, che può essere sciolto ridando alla gratuità diritto di cittadinanza all’interno delle dinamiche civili, nelle piazze, tra i mercanti dove tanti, senza saperlo, la stanno cercando, spesso nel buio, con una lanterna in mano.

Luigino Bruni

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