L'unico modo in cui l'uomo guadagna tempo è crescere. E l'uomo cresce solo quando impara ad abitare il tempo, cioè costruisce relazioni profonde con se stesso, gli altri e il mondo
L’unico modo in cui l’uomo guadagna tempo è crescere. E l’uomo cresce solo quando impara ad abitare il tempo, cioè costruisce relazioni profonde con se stesso, gli altri e il mondo
L’attenzione che i mezzi di comunicazione accordano all’esame di maturità è la conferma del fatto che rimane uno degli ultimi riti di passaggio, in un’epoca in cui trionfa anche sugli umani la visione prestazionale delle macchine: o funzionano o sono guaste, non c’è crescita. L’esame di maturità interessa perché mette a tema, almeno una volta all’anno, il tempo “inutile” in cui ci si può dedicare a pensare chi sia l’uomo, la sua origine, il suo destino, la sua felicità. Fuori invece prevale il grande meccanismo in cui l’io non deve crescere, ma semplicemente diventare l’oggetto di produzione di se stesso, l’io-prestazione sostituisce l’io-presenza, abbiamo valore nella misura in cui siamo capaci di procurarcelo con le nostre forze e quindi alla periferia dell’io: avere, apparire, fare.
L’essere è cosa di cui si occupa chi ha tempo da perdere, roba da adolescenti, dopo si entra nel tempo da ottimizzare, illusi che il tempo si possa guadagnare, come se il tempo fosse a nostra disposizione e non noi a disposizione del tempo. Non c’è spazio per le domande che aprono un tempo verticale, quello che dà senso al tempo orizzontale degli orologi. Il tempo deve essere vinto, fare finta che non ci sia, nascondere che moriremo, vogliamo scavalcare la morte come se potessimo scavalcare la nostra ombra.
L’io prestazionale ha il suo mito nel guadagnare tempo (per fare cosa poi?), ma l’unico modo in cui l’uomo guadagna tempo è crescere. E l’uomo cresce solo quando impara ad abitare il tempo, cioè costruisce relazioni profonde con se stesso, gli altri e il mondo, come ribadisce Seneca a Lucilio, nel testo offerto ai ragazzi per il compito di traduzione: «Senza la Filosofia nessuno può vivere con coraggio, nessuno può vivere con tranquillità».
Noi invece preferiamo sottometterci al dio Prestazione (successo, bellezza, potere…) che ci garantisce di essere qualcuno, perdendo la capacità di stare in pace con noi stessi e il coraggio di affrontare ogni lotta, contenti (cioè contenuti) dentro la vita. Per questo l’io prestazionale è sempre stanco, a caccia di svaghi, non trova la festa nel quotidiano ma nell’over di emozioni o nell’iper di acquisti e informazioni, e spesso precipita nella depressione (cioè la pressione che schiaccia chi non si sente mai all’altezza), oppure nel «lesionismo», agito dai corpi dei ragazzi per lo più come violenza verso l’esterno o su quello delle ragazze per lo più come violenza verso l’interno, modi speculari di svincolarsi dalla mancanza di valore della propria vita. Un valore che può crescere solo dall’interno e grazie a relazioni sane e curate nel tempo, per cui la filosofia diventa necessario stile di vita ed esercizio dello spirito che si confronta con la negatività del reale, e non certo passatempo di salotti autoreferenziali, farciti di pensieri e premi di autocompiacimento (anche questi prestazioni del nostro tempo senza filosofia).
Fu Cicerone a dire che così come l’agricoltura è cura (-coltura) del campo (agri-) così la filosofia è cura dell’animo («animi cultura»). La filosofia è la coltivazione dell’io-presenza: come il contadino rispetta il tipo di semina e le stagioni e, attraverso un lavoro faticoso e paziente, ne coglie i frutti al momento opportuno, così noi, solo con un esercizio di conversazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo, prendiamo possesso di noi stessi e diamo frutto. In un tempo che distrugge il tempo, la coltivazione del sé come campo fecondo che può dar frutto non è presa in considerazione, perché siamo sottomessi a prestazioni che non tollerano l’attesa, e quindi l’attenzione, la pazienza, e quindi la passione. Basti pensare ad una scuola tutta basata sulle prestazioni, simile più a un addestramento che a un percorso di conoscenza di se stessi, dei propri punti forti e deboli. Basti pensare a rapporti familiari per i quali non si trova mai il tempo, il tablet sostituisce la tavola, gli oggetti individuali sostituiscono i progetti condivisi.
Quando Alcibiade si lamenta con Socrate del fatto che conoscere se stessi è faticoso, il filosofo gli risponde «è vero conoscere se stessi è difficile, ma se non conosceremo noi stessi non sapremo come prenderci cura di noi stessi». In Occidente il dna classico, arricchito dal concetto di persona del cristianesimo, ci ha consegnato un’eredità la cui erosione è stata e continua a essere esiziale: la conoscenza del mondo è al servizio della cura di se stessi e del mondo. Oggi la conoscenza del mondo è ridotta a utile, calcolo, tecnica: è al servizio del dominio di se stessi e del mondo. Ma se non sappiamo prenderci cura di noi stessi andiamo incontro a un mondo regolato da rapporti di forza e non di cura. Ma si sa questi sono discorsi che durano il tempo di una maturità, di una versione di latino di Seneca: «ma a che vuoi che serva il latino, oggi», «fai lo scientifico senza latino, che poi non trovi lavoro». Noi dobbiamo ottimizzare, produrre i nostri io, senza sapere neanche chi e che cosa sia «io», come se la felicità fosse una condizione delle cose e non dello spirito. Per questo Shakespeare poteva ancora far dire ad uno dei suoi personaggi: «Quando l’anima è pronta, allora anche le cose sono pronte».
Senza filosofia, ci siamo convinti del contrario.
di Alessandro D'Avenia
tratto da http://www.lastampa.it/
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