Si credeva di avere raggiunto un certo status di sufficienza, e anche una certa tranquilla stabilità vocazionale, e invece si viene risospinti nel deserto del dubbio e dell'incertezza del domani, personale e dell'istituzione religiosa. E Dio sembra insensibile al nostro “esilio”. Allora occorre uscire di nuovo fuori...
del 15 maggio 2012(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));
L'antiesodo di Israele
           Si credeva di avere raggiunto un certo status di sufficienza, e anche una certa tranquilla stabilità vocazionale, e invece si viene risospinti nel deserto del dubbio e dell’incertezza del domani, personale e dell’istituzione religiosa. E Dio sembra insensibile al nostro “esilio”. Allora occorre uscire di nuovo fuori, per poter sentire ancora una volta la chiamata di Dio, perché la vocazione è sempre avanti, è sempre una terra promessa.
           I primi due libri dei Re, sui quali ci siamo soffermati nelle ultime riflessioni, narrano il periodo storico in cui Israele ha vissuto la forma monarchica.
           È un tempo piuttosto esteso, circa 4 secoli, che inizia col regno di Davide e finisce – non proprio in gloria – con la distruzione di Gerusalemme e l’esilio in Babilonia.
           E se è vero che in questo periodo sorgono i più grandi profeti di Israele, è anche vero che in esso si succedono dei re sul trono di Giuda e Israele che molto spesso allontanano il popolo dal suo Dio.
Dall’esodo all’antiesodo
           Di questi re l’autore sacro dà dei giudizi molto netti: la grande maggioranza di loro, esattamente 34 (specie nel regno del nord), “fece ciò che è male agli occhi del Signore”; 6 di loro (tutti del sud) invece si comportarono bene, ma senza impedire del tutto pratiche idolatriche tra il popolo; solo due, Ezechia e Giosia (ne abbiamo parlato nelle precedenti riflessioni) fecero “ciò che è giusto agli occhi del Signore”. Davvero sconcertante questa quasi generale corruzione dei capi di Israele, che determina i due eventi drammatici della distruzione di Gerusalemme e della duplice deportazione in terra straniera (cf 2Re 24-25). 
           Ma più sconcertante ancora è la considerazione storico-morale che ne segue: al termine di questa lunga e tortuosa vicenda monarchica Israele si ritrova esattamente nel punto in cui si era concluso il Pentateuco: ancora  drammaticamente fuori della terra promessa da Dio (R.Pasolini)! Come se quattro secoli fossero passati invano e non ci fosse stata storia nel frattempo, come se il popolo che Dio si era scelto e fatto suo non avesse imparato nulla  dalla propria  vicenda esistenziale e Dio lo avesse educato invano! Dall’esodo all’antiesodo… Dall’uscita dall’Egitto, terra di schiavitù, all’uscita dalla terra ove scorre latte e miele; dall’esodo ricco di speranza, pur con tutte le sue fatiche e disagi, all’antiesodo di  quanti – e forse non solo tra chi aveva abbandonato la fede dei padri – sembrano aver perso la speranza, e sono nello sconcerto, nella frustrazione, nel dubbio su Dio: perché il Signore non ha saputo custodire il suo popolo nella terra della promessa? Il Signore è fedele alle promesse fatte a Davide e ai nostri padri? Ha senso sperare in un ritorno alla terra?
Il nostro antiesodo
           C’è forse un antiesodo anche per noi oggi, o quanto meno possiamo forse intravedere nella vicenda di Israele elementi che possiamo rapportare alla nostra attuale esperienza. Avevamo raggiunto un certo livello vocazionale che ci poneva in posizioni di sufficienza, senza preoccupazioni per il futuro, in perenne tensione di crescita, e ci siamo ritrovati, in tempi rapidi, a… contare di meno, a dover ridurre le nostre presenze e abbandonare servizi e prestazioni, a inseguire la singola vocazione per strapparle l’assenso e a far conti che non tornano… Abbiamo pure reinventato una nuova pastorale vocazionale, aggiornato i metodi dell’annuncio e della formazione, formalizzato il ridimensionamento, per non dire di novene, tridui, campi-scuola e anni vocazionali. Eppure la carestia continua. E, con essa, spontanea sale la domanda a chi dovrebbe essere più interessato di noi al problema, e dovrebbe dunque mandarci (tante) vocazioni per promuovere le nostre opere. E ci pare strano che non ci risponda e ci lasci nella crisi.  
Esilio e conversione
           Torniamo un momento alla vicenda di Israele e al suo controesodo. Secondo il parere degli studiosi, i due libri dei Re, redatti nel tempo dell’esilio, sono stati scritti proprio per muovere un forte appello all’Israele in diaspora. Un appello rivolto anzitutto a prendere coscienza della propria storia di peccato e infedeltà, individuale e collettiva. Certo, già i profeti avevano levata alta la voce per rimproverare il popolo, ma Israele, gente dalla dura cervice, non aveva capito o non aveva voluto capire. E allora ecco l’esilio, come punizione, in un senso, ma soprattutto come tentativo estremo – da parte di Dio – di educare il suo popolo, di insegnargli a leggere la storia, la propria storia, e in essa scorgervi il volto dell’Eterno, magari anche la sua ira e gelosia, per comprendere finalmente quanto lui, il popolo, fosse prezioso agli occhi del suo Dio. E decidersi finalmente a convertirsi, ricordando che si entra e si torna alla terra – la terra del proprio cuore che è sempre una terra promessa – solo attraverso la fedeltà alla chiamata continua di Dio.
Così, anche l’esilio o l’antiesodo, diventa storia della vocazione di Israele e segno della fedeltà di Dio. 
La nostra conversione
           Veniamo ancora a noi: questa strana vicenda dei nostri padri può aiutarci a capire un po’ l’altrettanto strana situazione che stiamo vivendo in questi tempi di “vacche magre”.
           Certo non è il caso di spingere il parallelo con l’antiesodo d’Israele fino a colpevolizzarci e pensare che tale crisi vocazionale sia tutta e solo colpa nostra. Ma possiamo e dobbiamo imparare, credo, a lasciarci educare da questa crisi, così come Dio ha formato il suo popolo anche attraverso l’esilio. Non ci sta forse purificando, questa “cura dimagrante”, da tante pretese di grandezza, o manie di protagonismo mondano o ecclesiale? Tale carestia non ci costringe forse a cercare l’essenziale liberandoci di tutto ciò che non lo è? Siamo proprio sicuri che quando chiediamo tante e sante vocazioni cerchiamo solo il Regno di Dio? E se la nostra vocazione attrae meno, non dipende anche da una nostra minore trasparenza e forza di attrazione e coraggio di chiamare? È debolezza del chiamato, dunque, o del chiamante? Siamo sicuri di essere ancora liberi di lasciarci sedurre dall’Eternamente Chiamante?
           La vocazione, in fondo, è sempre una terra promessa per ogni chiamato in ogni momento della vita, poiché Dio chiama sempre. Anche nei momenti di crisi e attraverso di essi. Forse ce ne eravamo dimenticati.
Amedeo Cencini
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