In ambito liturgico, nulla è banale, scontato o insensato. Né tempi, né luoghi, né modi. Nulla è privo di legami: ogni elemento è legato all'altro in una fitta rete di simboli e richiami, come un gigantesco network.
del 30 marzo 2011
 
          In ambito liturgico, nulla è banale, scontato o insensato. Né tempi, né luoghi, né modi. Nulla è privo di legami: ogni elemento è legato all’altro in una fitta rete di simboli e richiami, come un gigantesco network.
          Eppure, molto spesso, ci troviamo smarriti, allocchiti, spaesati e guardiamo, imbambolati,  gesti e simboli che magari ripetiamo anche – come automi – ma non riusciamo più a coglierne il significato (che – pure – c’è!). Qualcuno esprime il suo disagio, sbottando che si tratta di riti vecchi e desueti e che è questo il motivo che li rende incomprensibili. Ma non tutti la vedono così.
          Per gli Ebrei, il pane azzimo e le erbe amare sono segni molto precisi, che richiamano alla mente l’ingiustizia, l’amarezza e l’asprezza della schiavitù d’Egitto e, al contempo, è il perpetuarsi di quel pasto, veloce e frugale, consumato ‘in piedi e in fretta’ per poter fuggire da quella terra di schiavitù, verso la Terra Promessa. È quindi un menu che contempla , al suo interno, anche la speranza riposta nella possibilità di un futuro migliore e più libero. Sanno bene che la kippah non è un buffo copricapo, ma un indumento rivestito di un preciso significato religioso, corrispondente alla sottomissione (cioè il rispetto) nei confronti di Dio. E, del resto, i tefillin annodati dagli Ebrei  osservanti, al momento della preghiera, sulla fronte e al braccio sinistro, hanno riferimento preciso a un passo biblico (Ct  8,6) e stanno ad indicare un ‘marchio’ d’amore integrale: mente (fronte) e cuore (il braccio sinistro è quello vicino al cuore).
          Lo Shabbat ebraico è, per l’ebreo osservante, un obbligo importantissimo, che ha avuto un ruolo fondamentale nell’alimentare l’unità di un popolo, rimasto compatto nonostante la diaspora. Tale obbligo, ricordato dodici volte nella Torah, prende l’avvio dalla Creazione del Mondo. Il sabato rappresenta il giorno in cu Dio riposò. Nella preparazione del sabato, non meno importanti sono i riti che lo precedono e che passano anche attraverso interventi esteriori (pulire la casa, indossare i vestiti più belli) che richiamano tuttavia un atteggiamento interiore di totale diversità rispetto al normale scorrere del tempo e alla routine quotidiana cui siamo abituati. Lo shabbat è innanzitutto il tempo di riposo e di reintegro delle energie, che vanno volte nella direzione di un miglior rapporto con noi stessi e con Dio (sono soprattutto i profeti che ricordano di non trascurare anche quello con gli altri) per il raggiungimento della pace spirituale.
          Nella religione cristiana, al significativo del riposo sabbatico, s’aggiunge, dominandolo, la festa che la fa essere ‘Pasqua settimanale’. Nelle prime comunità cristiane della Giudea, tuttavia, non fu subito sostituito il sabato con la domenica. Anzi, a lungo entrambi furono rispettati e onorati: il sabato si andava in sinagoga, mentre la domenica era il giorno della Cena del Signore, con gli altri credenti in Cristo, come attestano gli Atti degli Apostoli (At 2, 42). Fu solo grazie all’avvento di comunità indipendenti dal giudaismo che, non sentendo un legame tanto forte con il sabato, la domenica prese il sopravvento e i riti del sabato furono (a poco a poco) abbandonati.
          E se per giungere alla Pasqua, sul calco dei 40 anni di schiavitù in Egitto e ricordando i 40 giorni di digiuno di Cristo, si sono decisi 40 giorni di preparazione (la Quaresima), probabilmente anche la Domenica dovrebbe essere preparata con cura, da riti specifici. In linea con questo, si tendeva, una volta, (oggi s’usa poco) restare digiuni diverse ore prima di accostarsi all’Eucaristia, proprio per una forma di rispetto e di accoglienza nei confronti di Cristo. Invece, non solo, negli ultimi tempi, la celebrazione domenicale è considerata assolutamente facoltativa, legata alle voglie del momento (al contrario del riposo sabbatico, obbligatorio come – in teoria – il precetto del Catechismo); stiamo sempre più perdendo di vista la ricchezza della festa, come umana e indispensabile necessità, presente di non vivere solo per lavorare, per consumare, per produrre. Di più, la domenica ridotta a giorno della spesa rischia di svalutare l’uomo, nel suo essere un unicum di anima e corpo: incapace dunque di essere ridotto a ‘cosa’ da acquistare e vendere, valutabile unicamente sotto forma di denaro.
          Sono solo alcuni accenni: le simbologie contenute nella liturgia della Quaresima e della Pasqua sono davvero tantissime e moltissime sono le analogie col popolo ebraico. Siamo sicuri di non riuscire più a entrare in contatto con la nostra tradizione? E se  proprio dal riconoscimento della nostra identità, attraverso simboli che ci ‘parlano’ dipendesse il nostro ritrovarci? Credo che il popolo di Abramo, la sua spiritualità e la sua grande capacità di restare unito, pur nella distanza geografica, grazie ad una tradizione ricca, comune e condivisa possano essere decisamente una grande fonte di riflessione, personale e comunitaria.
 
don Marco Pozza
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