I cristiani hanno ancora oggi un messaggio da trasmettere con la loro vita a quanti non condividono la loro fede, un messaggio che parla a ogni uomo, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose, perché è un messaggio che ha a che fare con i diritti inalienabili di ogni essere umano...
del 01 gennaio 2002
A più riprese, auspicando un maggiore dialogo e ascolto reciproco tra credenti e non credenti, ho avuto modo di sottolineare l’importanza che i cristiani riuscissero a esprimere le proprie istanze etiche in termini e prospettive antropologiche e non solo dogmatiche. Non si tratta di tacere i principi che si ritengono essenziali e nemmeno di ridurre il cristianesimo a una forma di umanesimo, quanto di adeguare il proprio linguaggio affinché quanto si afferma e si sostiene possa essere correttamente recepito – che non significa automaticamente accettato o condiviso – dai propri interlocutori. Sovente invece sembra di assistere non a un dialogo tra sordi ma a una babele di linguaggi, fonte di incomprensioni che hanno come vittime gli interlocutori stessi e la sana convivenza civile.
Penso, per esempio, a come l’evolversi della nostra società abbia finito per relegare nelle “sacrestie” un tempo forte come la quaresima, di cui i non cristiani hanno finito per cogliere solo una mesta contrapposizione al carnevale, mentre i cristiani stessi sovente ne hanno smarrito la pratica e, conseguentemente, la ricchezza umana e spirituale. Salvo poi riscoprirne, cristiani e non, alcuni elementi prendendoli a prestito da altre religioni o sistemi etici e filosofici. In verità sarebbe tempo che i credenti riprendessero una “pratica profetica” della quaresima, perché anche in questo sta la “differenza cristiana” che attraverso il comportamento appare visibile, capace di narrare la speranza che abita il cuore dei credenti. Non si tratta di tornare a vivere in modo legalistico e meritorio delle “osservanze”, ma di praticare, di mettere in atto alcune opzioni che, proprio in quanto sono d’aiuto alla vita cristiana, sono anche una prassi in vista di una maggior qualità di vita umana e di convivenza sociale. Mi riferisco in particolare a due ambiti che si possono ricondurre ad altrettante istanze “classiche” dell’ascesi cristiana: il silenzio e il digiuno.
Del primo ho già parlato recentemente su queste stesse colonne, ma vorrei sottolinearne anche la valenza come tempo e spazio per ascoltare, pensare e leggere. Pratiche quotidiane rese ardue da ritmi e abitudini dettate da velocità, immagini e rumori, eppure indispensabili perché la nostra vita non sia da noi “subita” ma divenga l’espressione di una nostra ricerca, non sia un accadimento ma un “atto” da noi compiuto. Il nostro udito è quasi incessantemente sottoposto a intenso lavoro, ma questo ha diminuito la nostra capacità di affinarlo e di cogliere tra parole e rumori confusi un senso, un’indicazione di vita, il messaggio di una persona che va “ascoltata”, cioè accolta e ospitata nella propria dimensione interiore.
In questi ultimi anni, infatti, il deserto della barbarie ha guadagnato sempre più terreno nelle nostre società e minaccia ormai ogni ambiente. Ci sono alcuni cristiani che sovente si mostrano arroganti, assumendo uno stile di difesa e di attacco non conforme alla loro fede; altri uomini, che hanno una figura pubblica nella polis, sembrano non sapere quello che dicono e quello che fanno, comportandosi con aggressività e violenza tali da minacciare seriamente di distruggere la stessa democrazia; tra avversari politici ci sono disprezzo, calunnia, offesa, dilatati dai mass media al punto che la gente comune si sente autorizzata ad emularli persino in famiglia o tra conviventi; c’è una barbarie che avanza quando si vedono gruppi di cittadini assumere comportamenti che manifestano più sete di vendetta che voglia di giustizia.
Sì, dobbiamo trovare il tempo per fermarci a riflettere su che tipo di società stiamo costruendo giorno dopo giorno: una convivenza dialettica e pacifica oppure una giungla in cui vivere egoisticamente senza gli altri o addirittura contro gli altri? Abbiamo bisogno di un tempo per pensare, riflettere, rielaborare quanto ascoltiamo, così da poterlo assumere, contraddire, approfondire, in una parola “farlo nostro”. E’ il grande dono che il pensare ci riserva: arricchirci di quanto proviene da un’alterità e rendere così la nostra identità più solida e variegata al contempo. In questo senso anche la lettura è una modalità di ascolto, un modo per addentrarsi in un mondo altro eppur conoscibile e riconoscibile. Così annotava a proposito del leggere uno scrittore non certo da sacrestia, Italo Calvino: “Leggere vuol dire spogliarsi di intenzione e di ogni partito preso per essere pronti a cogliere una voce che si fa sentire quando meno ci si aspetta, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell’autore, al di là delle convenzioni della scrittura. Dal non detto, da quello che il mondo non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire”. Perché allora non prenderci quella quarantina di giorni che precedono la Pasqua come occasione privilegiata per tornare, o andare, ad alcuni testi che non si appiattiscono sul contingente?
L’altro ambito “quaresimale” che può dire qualcosa anche all’uomo postcristiano contemporaneo è il digiuno: non penso tanto a una drastica restrizione dei cibi e nemmeno alle valenze salutistiche o “politiche” che hanno trasformato questa pratica propria a tutte le religioni in una corsa alla dieta o in uno strumento di lotta come lo sciopero della fame. Penso invece all’aiuto che può venire, a livello individuale come sociale, da una maggiore sobrietà nel consumo degli alimenti e dei beni in genere: un’attenzione a ciò che è veramente essenziale per la nostra vita, una consapevolezza che noi siamo ciò che mangiamo, che quanto ci nutre ci plasma anche; e, accanto a questo, uno stimolo alla condivisione e alla solidarietà, un più sensato uso delle risorse comuni, una diversa comprensione dei fenomeni economici e sociali che spingono milioni di persone a muoversi dalla fame verso il pane.
Non è un caso che già i profeti biblici, lungi dal relegare le pratiche di penitenza nella sfera della devozione privata, fossero esigenti nel porre il digiuno in stretta relazione con la giustizia e la condivisione. Così, per esempio, ammoniva Isaia prestando voce al Signore: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?”. Sì, i cristiani hanno ancora oggi un messaggio da trasmettere con la loro vita a quanti non condividono la loro fede, un messaggio che parla a ogni uomo, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose, perché è un messaggio che ha a che fare con i diritti inalienabili di ogni essere umano, con una vita degna di tale nome.
Enzo Bianchi
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