Iniziare dicendo che Gesù è stato un feto a molti parrà ideologico, opportunistico, forse perfino blasfemo. Eppure, a me pare un semplice dato di fatto. Non diverso dal constatare che sia stato bambino o adolescente.
del 15 dicembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Iniziare dicendo che Gesù è stato un feto a molti parrà ideologico, opportunistico, forse perfino blasfemo. Eppure, a me pare un semplice dato di fatto. Non diverso dal constatare che sia stato bambino o adolescente. Oppure ancora, che ci siano stati degli screzi con i suoi familiari, tanto per rendere noto a tutti (o – quanto meno – a chi accetta di rendersene conto!) che nemmeno la Sacra Famiglia era la famiglia del Mulino Bianco, tutta sorrisi e sdolcinatezze. Quel Bambino Santo era così tremendamente “normale” da non essere distinguibile, agli occhi del tetrarca Erode: per questo si trovò costretto a compiere una strage, per essere sicuro di eliminare lo scomodo usurpatore regale.
“Un Bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9,5) dice il profeta Isaia.
          E queste parole mi fanno pensare – inevitabilmente - a tutte quelle volte in cui l’arrivo di un figlio non è vissuto come un dono: è – anzi – un evento che ha ben poco di lieto. Un impiccio, un problema, un guaio, un imprevisto. Un danno. Un ostacolo alla carriera, al successo, al benessere economico, all’ordinarietà della propria vita. Un “fuori programma” da eliminare. Un insuccesso inaccettabile.
          Penso a tutte quelle maternità oggettivamente difficili, complesse, ben lontane dall’essere serene. Situazioni decisamente e inequivocabilmente antitetiche rispetto a un certo idillio prospettato da parentame di varia natura non appena si approccia l’arrivo del pupo atteso. Che, talvolta, atteso non è: tutt’altro. Ma penso anche a quanto poco ci spendiamo per tutelare l’infanzia sin dall’inizio, cioè quando è maggiormente indifesa. Sembra un assurdo e un controsenso (e la faccenda non è definita in pienezza) ma pare che, tramite uno dei soliti “giochi di parole”, l’Unicef stesso finanzi una campagna per favorire l’aborto sicuro, utilizzato come controllo delle nascite, inteso spesso in chiave eugenetica. Lascio il beneficio del dubbio e la libertà di scegliere a chi credere; tuttavia, se perfino l’ente per antonomasia preposto alla tutela dell’infanzia favorisce l’aborto, è necessario riflettere parecchio su quali siano il rispetto e la protezione che, concretamente, ci impegniamo a garantire nei confronti di tutta quella popolazione che, per la sua età, necessita una tutela particolare e privilegiata per mano di altri, non avendo la capacità di richiederla in prima persona! 
          Sono tante le testimonianze, concrete, reali, e ben lontane dall’essere ideologiche; al contrario, sono umanissime e ci regalano riflessioni, considerazioni, vissuti e stati d’animo in cui ci si può rivedere, sia che si possa essere stati coinvolti direttamente, sia perché si può immaginarli in modo indiretto. Tuttavia, credo che ognuno di noi sia perfettamente in grado di comprendere ciascuna di esse. Perché c’è un’esperienza che ci accomuna tutti: siamo figli. Non ci siamo fatti da soli: anche il magnate della finanza più arrivista che ci sia, ha alle sue spalle dei genitori. E persino chi non ha potuto conoscerli sa che, in ogni caso, due persone sono state l’inizio della sua vita (quanto meno, quella biologica). C'è chi racconta di un aborto scelto e delle sue conseguenze, chi parla di aborto mancato e della successiva nascita del figlio in precedenza non voluto... ma vorrei porre l'attenzione in particolare su due testimonianze che io considero shockanti. Si tratta di due figli, nati dopo violenza; due casi diversi: Rebecca e Ryan. Questi due esempi rappresentano proprio il caso-estremo, quello che il 90% di noi (e mi ci metto dentro anch’io, perché è stata la testimonianza di Rebecca a turbarmi profondamente e farmi cambiare la prospettiva attraverso la quale affrontare la situazione) probabilmente considera una di quelle eccezioni in cui “tutti dovrebbero essere d’accordo con l’aborto”. E invece, solo la superficialità può condurre a questo tipo di ragionamento. Senza dubbio si tratta di situazioni difficili, dolorose, impegnative, in cui è più che necessario il rispetto di tutti gli esseri umani che sono coinvolti. Ma come ignorare l’opinione dei diretti interessati, di quelli che hanno scampato un “giusto” aborto, che avrebbe dovuto essere l’unica soluzione per evitare la loro infelicità?
Il dono di Natale è un figlio, un bambino. Qualcuno che ci guarda e tace. Che non può urlare comandi o imporsi a nessuno. Non ne ha la forza!
          Nell’iconografia classica, poi, ha le braccia spalancate. Come sulla croce. Similitudine - per certi versi - agghiacciante, noterà qualcuno. Come far convivere la tenerezza del Natale con la crudezza del Venerdì Santo? Come accomunare il legno del patibolo al legno della mangiatoia? Come poterli anche soltanto pensare insieme?
          È complesso, sì; ma realistico. Perché non è forse clamorosamente vero che proprio i soggetti che vogliamo educare si rivelano i maestri più formidabili? È la vita che ce lo mostra, senza mezze misure. E quando è la vita ad insegnare, è difficile accettare le sue lezioni.
È faticoso accettare il dolore e la fragilità, ma mi viene il dubbio che lo sia di più vederlo negli altri. Ogni volta che lo vediamo, le mani ci tremano e il cuore ci sussulta nel petto. Spesso ci sentiamo inadeguati, a volte impotenti.
          Ma, forse, fa ancora più male al nostro ego lasciare che ci insegnino a vivere con il sorriso, ad amare la vita… ad essere felici. Sì, ci è insopportabile tutto questo. Ci fa sentire stupidi che chi tende le mani, bisognoso di tutto, possieda il tesoro più prezioso di tutti: la capacità di sorridere alla vita e di cogliere la Bellezza che è possibile scoprire nelle pieghe del quotidiano.
Maddalena Negri
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