Quel corpo di bambina in mostra per una griffe

Ha fatto ampiamente notizia il caso della 12enne di Treviso che si spogliava per fotografarsi e mandare mms ai compagni di classe. Quello che ha colpto di più è stato il fatto non solo della giovane età ma della futile motivazione di comprare abiti esclusivamente firmati perchè i genitori glielo proibivano. Si è' rotto un microcosmo e l'ordine naturale di un'infanzia 'normale'?

Quel corpo di bambina in mostra per una griffe

da Attualità

del 01 luglio 2008

Davanti al cellulare si spogliava, si metteva in posa e si fotografava.

Poi offriva in vendita quegli scatti, ad ogni acquirente un mms. Non è la storia di una valletta intraprendente e procace, ma di una ragazzina di dodici anni, che in una scuola media di Treviso usava i bagni dell’istituto come set, e quelle foto le proponeva per pochi euro ai compagni di banco: per comprarsi, ha spiegato, i jeans firmati.

È una piccola storia triste, che magari verrebbe da considerare con una rassegnata impotenza, dicendosi – come spesso facciamo – che si tratta di una vicenda isolata, e che per la maggioranza i nostri figli sono bravi ragazzi. Il che è vero, e tuttavia la vicenda della dodicenne in posa davanti al suo cellulare, attenta ad imitare con il suo corpo acerbo le pose delle dive sexy e poi a offrirle agli amici per pochi soldi, è in sé come un microcosmo distrutto, in cui l’ordine naturale delle cose è andato in frantumi.

 

Quell’ordine naturale, se ancora si può usare questa espressione, per cui a dodici anni una ragazza studia la geometria, ha i poster dei cantanti appesi in camera, si guarda ansiosa allo specchio e aspetta di diventare una donna; sognando magari, senza dirlo neanche alla più cara amica, di incontrare per caso sabato in piazza quel ragazzo biondo della III B. Invece la storia della ragazzina di Treviso racconta di una adolescenza deformata e annientata brutalmente, nel solco però di canoni ampiamente condivisi dai giovanissimi: il culto dell’aspetto, l’ansia dei vestiti ' giusti' sembrano il motore della metamorfosi solitaria, nel bagno di scuola, di una bambina in una stellina hard. Come se questa dodicenne avesse semplicemente preso integralmente e alla lettera gli imperativi morali con cui la sua generazione si confronta; e tirando, in un misto di ingenuità infantile e disarmante cinismo, le somme, si fosse detta: perché no? Più che quelle foto di bambina, che pure lasciano l’amarezza di qualcosa di sacro profanato, pesa una domanda: quanto è il non detto, il non compreso, quanta coscienza di sé, della dignità e del valore di sé, deve mancare per spogliarsi, a quell’età, e scattare e vendere? Come se ci si percepisse ­dietro quel viso infantile, quegli occhi, quel corpo esile - una cosa, o un nulla. Come se non ci fosse nulla da perdere, né nulla di bello e di buono al mondo da fare: solo del tempo da ingannare, e dei soldi da guadagnare. È questa, l’emergenza educativa che cerchiamo di non vedere, perché ci spaventa. C’è una poesia di Mario Luzi di pochi anni fa che parla del « testimone » che le generazioni si passano l’una con l’altra, dei patti « immemorabilmente stretti » che tramandano il senso del vivere, il valore dell’uomo e il suo scopo. « E ora che cosa non sanno, che cosa non ricordano? », è la domanda che si ripete e percorre dolorosamente la poesia. Luzi oggi è morto, ma forse se leggesse la piccola storia triste di Treviso altro non potrebbe che ripetere quella domanda. Un caso isolato, certo, e i nostri figli sono bravi ragazzi. Ma noi, che cosa ci siamo dimenticati di dargli?

Come se qualcosa di radicale di fosse incrinato.

La vicenda della dodicenne in posa davanti al suo cellulare, attenta ad imitare le pose delle dive sexy, è come un microcosmo distrutto.

Marina Corradi

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