E suggerendo all'uomo, attraverso il piccolo mistero della creatività, l'idea di aprirsi a sondare il mistero, ben più grande, della Creazione. Per la musica il compito è ancora più delicato. Non perché esista una classifica di merito tra le arti. Che, evidentemente, non c'è.
del 18 febbraio 2010
           Non so se ciò che faccio si possa definire arte. Non lo garantiscono il metodo, né i risultati. E non spetta a me dirlo. Ma è grazie a ciò che faccio che ho potuto incontrare Sua Santità, Benedetto XVI, insieme ad altri uomini accomunati dal misterioso appellativo di artisti. Uomini che, credo, convivano con il mio stesso dubbio. Perché l’arte è ricerca. E il dubbio è il primo motore della ricerca. Dubbio che, quindi, non è negazione. Ma, al contrario, presupposto, preludio, anticamera della verità. Anticamera nella quale trascorre la vita di ogni uomo.
 
 
           E, tra tutti gli uomini, credo che coloro i quali vengono chiamati artisti siano tra quelli che attendono più vicini alla “porta”. Con i sensi dell’interiorità, avvertono i silenzi, i suoni, le voci e i rumori che provengono dalla “stanza accanto”. Vedono un filo di luce filtrare da sotto la porta. Scorgono segni e riflessi che cercano di mettere a fuoco, decifrare, ordinare – non a caso questa è una delle mille, affascinanti, radici della parola “arte” – e rendere visibili.
          
           Una condizione che è, allo stesso tempo, esaltazione e sofferenza. Perché il dono di una sensibilità non ordinaria, porta con sé il peso di non ordinarie responsabilità. Lo ricordava Paolo vi, quando diceva che la missione degli artisti è “carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità”. Rendere visibile l’invisibile, appunto. Nessuno sa da dove vengano le note di una melodia, le parole di un romanzo, i passi di una coreografia; i tratti e i colori di una tela, le liriche di una poesia; le forme di una scultura o i volumi di una architettura; le immagini di una foto o le inquadrature di un film.
          
           Né sappiamo chi o cosa le porti dentro di noi. Tutti, però, sappiamo dove queste cose portano noi. Cambiano. Sollevano. Elevano. Non solo ci consentono di violare il limite orizzontale di questo nostro pellegrinaggio nell’esistenza, ma suggeriscono un nuovo orizzonte. Orizzonte verticale. Dal quale l’anima è, evidentemente, chiamata. E al quale essa, per sua natura, tende. Da sempre. Per sempre. “La storia dell’umanità – ha ricordato il Papa – è movimento e ascensione”. L’arte è parte di quella storia. Parte importante. Movimento e ascensione contengono, però, il rischio della caduta dell’uomo. Rischio che “incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male”. In questo senso l’arte ha la responsabilità di essere, allo stesso tempo, frutto e seme di bellezza. Chi semina bellezza, raccoglie bellezza. Bellezza autentica, naturalmente.
          
           Profondità, non superficie. Sostanza, non forma. Quella bellezza che l’uomo ha, di volta in volta, identificato con verità, virtù, bene. Bellezza che è antidoto alla disperazione. Come ha ricordato Sua Santità, quando ha sottolineato il “legame profondo tra bellezza e speranza”. Legame fondamentale. Soprattutto oggi, in un mondo che ha un bisogno estremo di bellezza. Quella bellezza che, come diceva Dostoevskij, sarà l’unica a salvare il mondo e senza la quale l’umanità non potrebbe vivere. Perché, se l’arte è davvero tale, riesce a colmare la distanza, sempre troppo grande, tra il presente come è e come, invece, potrebbe e dovrebbe essere. A rivelare il confine tra imperfezione e perfezione. Tra abisso e infinito. Non solo mostrando le strade da non battere, ma anche illuminando quelle da seguire.
          
           E, soprattutto, rivelando, nel comporsi a rotta di queste ultime, il valore di una prospettiva. Dimostrando che ciò che si immagina o si teme impossibile, impossibile non è. Se l’uomo guarda, vede. E all’arte spetta – accanto ad altre “arti”, naturalmente – il compito difficile, ma irrinunciabile, di mostrare ciò che non riesce o, talvolta, si rifiuta di vedere. Non solo dare senso e valore al suo cammino orizzontale – regalando, ad esempio, più umanità all’umanità – ma dimostrando che la meta è fine, ma non sempre è “la” fine. Spesso, anzi, essa è inizio. Nuovo inizio. E suggerendo all’uomo, attraverso il piccolo mistero della creatività, l’idea di aprirsi a sondare il mistero, ben più grande, della Creazione.
 
           Per la musica il compito è ancora più delicato. Non perché esista una classifica di merito tra le arti. Che, evidentemente, non c’è. Ma perché l’immediatezza della musica, la sua universalità, la facilità, rapidità e vastità della sua diffusione, il fatto di valicare qualunque confine, di essere l’unica lingua che tutti sono in grado di comprendere e parlare – anche chi ne ignora completamente vocabolario, grammatica e sintassi – e di esercitare un richiamo particolarmente forte sulle generazioni giovani, la rendono una tra le arti più amate e ascoltate. Il che impone a chiunque le dia voce un supplemento di coscienza, autenticità e verità. Oltre all’obbligo, che vale per tutti gli artisti, di non dimenticare mai di essere, come scriveva Paolo vi, “i custodi della bellezza nel mondo”. Parole che stordiscono e fanno tremare i polsi a tutti noi, piccole anime di confine, che tendiamo l’orecchio e speriamo di cogliere e saper interpretare dignitosamente i fragili segnali che ci manda quel sottile filo di luce che passa sotto la porta.
Claudio Baglioni
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