Questo è ciò che avviene nel nostro mondo “civile”. Dunque si capisce perché Mel Gibson grida che Apocalypto è qui e i Maya siamo noi... D'improvviso in questo orrido abisso di odio e di sangue s'accende la luce di una parola cristiana, di una sofferenza cristiana: il perdono delle vittime.
del 16 gennaio 2007
Anche Eugenio Scalfari, ieri sul “Venerdì”, inorridisce per gli strazi del film “Apocalypto” di Mel Gibson, invocando il divieto ai minori di anni 14, perché “l’orrore non è un tema e una rappresentazione che possa essere scodellato davanti a soggetti non ancora preparati a riceverlo”. Sennonché la sera precedente i telegiornali ci hanno informato: 1) che è stata la donna di Erba ad aver ucciso (sgozzato) il bambino “perché piangeva” e 2) che al noto Policlinico Umberto I “rubavano gli occhi ai morti” (notizia ripresa dalla copertina dell’Espresso). Non c’è qualcosa che non va?
 
Il film di Gibson bisogna espressamente andarlo a cercare nelle sale, è visto da un pubblico limitato, che sa quello che vedrà. Invece i telegiornali della sera hanno davanti milioni di persone (anche bimbi) impreparate all’orrore. Ti piombano in casa mentre sei a tavola ignaro e tranquillo con i figli. Tu al peggio ti aspetti qualche notizia sulle tasse di Prodi. E invece ti arrivano addosso mazzate simili, cosicché sei costretto a gettarti sul telecomando per evitare ai figli piccoli (e a te medesimo) di vomitare nel piatto (ogni giorno così: ieri ci sono toccate le immagini ravvicinate di una mummia con discussione sulla sua putrefazione).
 
Pretendiamo di mettere il divieto di anni 14 alle sale cinematografiche per Apocalypto, ma poi inondiamo di orrore le case. Ci fu perfino qualche moralista che inorridì per la violenza del precedente film di Gibson, “The Passion” (che poi è la storia vera della torture inflitte a Gesù e riferite dai Vangeli). Anche allora si auspicò un qualche divieto. Sennonché poi si accetta tranquillamente che – secondo le statistiche ufficiali – ogni bambino italiano, prima di aver terminato la scuola elementare, veda in media in tv 8.000 omicidi (ottomila!) e 100.000 (centomila!) atti di violenza. Lì niente divieti.
 
La richiesta di censura può scattare invece per il “politicamente scorretto”. Mesi fa – per dire – l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria decretò che un manifesto del Movimento per la vita, fatto per aiutare donne in difficoltà, era “oggettivamente scioccante e angosciante”. Conteneva una bellissima foto – fatta con una sofisticata ecografia – di un bimbo di 15 settimane che si succhiava il pollice nel seno della madre e sotto stava la scritta: “Mamma ti voglio bene. Non uccidermi. Se sei in difficoltà S.O.S Vita. Numero verde 808-13000”.
 
Al Movimento per la vita arrivò questa lettera: “Il Comitato di controllo ha ritenuto che il messaggio, prescindendo dalla finalità e dalle motivazioni che lo animano (…) sia idoneo a produrre sentimenti di turbamento nel pubblico dei destinatari, potendo suscitare un’eccessiva ansia in coloro che, per le più disparate motivazioni, non intendano aderire all’appello”. Anche la foto (dolce e simpatica) era giudicata inammissibile in quanto idonea “a rafforzare il turbamento e il senso di colpa suscitato dalla parte testuale”.
 
Strano rovesciamento. Per i media e la cultura dominante l’orrore da proibire non è che si facciano (secondi i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità) 50 milioni di aborti all’anno (130 mila in Italia). No, da “sconsigliare” è che se ne parli, che si chiamino le cose col loro nome. Turbando le nostre coscienze. Infatti più di un miliardo di vite innocenti sono state spazzate via, nel mondo, negli ultimi 70 anni, da quando l’aborto è stato autorizzato dalle leggi. Ma la “notizia” non desta l’attenzione dei media, non buca l’indifferenza. Com’è possibile? Qual è la soglia dell’orrore nella nostra coscienza?
 
Non è un po’ ipocrita scoprire l’orrore solo dopo fatti come la strage di Erba e pensare che l’abisso del male siano (solo) quei due disgraziati che si sono macchiati del crimine? Siamo una generazione che convive tranquillamente con la soppressione legale di milioni di bimbi nel seno delle madri. E anzi pretendiamo pure di rivendicare la cosa come “conquista civile” e qualificare l’aborto tra i “diritti dell’uomo”.
 
Possiamo dormire davvero sonni tranquilli? Inorridiamo solo per i due di Erba? Siamo sicuri che l’abisso dell’orrore del nostro tempo sia (solo) quello? So bene che mi daranno del provocatore. Ma i fatti hanno la testa dura. Del resto non sto parlando solo di “spensierati” aborti fatti in pochi minuti con la pillola del giorno dopo o in ambienti lindi e asettici, al secondo mese, di quelli che si possono facilmente camuffare con l’eufemismo “interruzione di gravidanza” (per sentire meno i sensi di colpa). C’è perfino di peggio.
 
Nel Paese più grande del mondo, la Cina, essendo prescritto per legge il figlio unico, da anni l’aborto è addirittura obbligatorio, “con la confortante complicità dell’Onu” (Roccella). I media internazionali hanno raccontato storie raccapriccianti di orrore. Sono milioni gli aborti forzati. Negli Stati Uniti, il paese più libero e moderno del mondo, solo il 5 novembre 2003 il presidente Bush è riuscito a proibire il cosiddetto “aborto tardivo” (difeso invece dal democratico Clinton). Che consiste in un aborto praticato anche all’ottavo mese di gravidanza. Lo si realizza così: per non far nascere vivo il bimbo (dopodiché non può più essere soppresso) il medico afferra i piedi del fanciullo con una pinza, porta le gambe fuori dall’utero e provoca il parto, ma senza estrarre la testa alla cui base esegue un’incisione attraverso cui viene aspirato il cervello. Così il bimbo nasce morto.
 
Questo è ciò che avviene nel nostro mondo “civile”. Dunque si capisce perché Mel Gibson grida che Apocalypto è qui e i Maya siamo noi. Nei loro orrendi rituali, nel loro mare di sangue, lui simboleggia il nostro orrore, la decadenza della nostra civiltà. Gibson però indica anche una speranza che là cambiò le cose: il cristianesimo. Con l’arrivo degli spagnoli finì quel mare di sacrifici umani e di strazi. Ma noi, come dimostra anche la tragedia di Erba, non vogliamo vedere questa speranza. Ieri le maggiori penne dei quotidiani si sono cimentate col massacro di Erba: Pigi Battista sul Corriere della sera, Adriano Sofri e Umberto Galimberti sulla Repubblica, Elena Loewenthal sulla Stampa, Ferdinando Camon sull’Unità, Giuseppe Anzani sull’Avvenire. Se non erro non ce n’è stato uno che non abbia puntato il dito accusatorio su qualcuno o qualcosa. Non ce n' è stato uno – se si eccettua l’editorialiosta di Libero – che abbia notato l’unica luce di speranza di questa tragedia, cioè le parole di perdono di Carlo Castagna che nel massacro ha perduto la figlia, la moglie e il nipotino: “Li perdono e li affido al Signore” ha detto. “Bisogna perdonare in questi momenti. Bisogna finirla con l’odio”. E parole simili ha detto anche il figlio Giuseppe.
 
D’improvviso in questo orrido abisso di odio e di sangue s’accende la luce di una parola cristiana, di una sofferenza cristiana: il perdono delle vittime. E s’illumina l’unica speranza che mette fine al gorgo satanico della violenza. Senza Cristo tutta la storia sarebbe solo strage, odio e vendetta. Ma i commentatori dei giornali neanche se ne accorgono. Solo Lidia Ravera, sull’Unità, cita il povero signor Carlo, ma per scrivere parole orrende. Dice che tutti provano “una quota di simpatia” per il padre del piccolo Joussef che invoca vendetta e invece “meno ne provoca” secondo la Ravera “il nonno, il signor Castagna, mobiliere, che recita una cavatina sul perdono e contro l’odio”. Resto incredulo. Se non ho frainteso, per la Ravera, quell’uomo buono, che ha subìto il massacro della figlia, della moglie e del nipotino, “recita” quando offre il suo dolente perdono. Sull’Unità è gelidamente definito: “il signor Castagna, mobiliere”. Signora Ravera, almeno un po’ di rispetto...
 
Da “Libero” del 13 gennaio 2007
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