La chiesa parrocchiale del quartiere periferico di Kabalaye, costruita e gestita dai gesuiti lombardi, è un'imponente costruzione ad anfiteatro, con una cupola ovale dalle ardite nervature in leghe metalliche leggere, le mura in cemento armato, il tetto di fogli di plastica.
del 21 dicembre 2009
 
Natale 1976 in Ciad, povero Paese appena a sud del deserto del Sahara. La maggioranza dei ciadiani sono musulmani o animisti, i cristiani piccola minoranza. Ma il Natale è vissuto da tutti come una festa. La capitale Ndjamena è una città del deserto, caldo e sabbia sono ovunque, anche a Natale, che però climaticamente è il miglior periodo dell’anno.
 
 
La chiesa parrocchiale del quartiere periferico di Kabalaye, costruita e gestita dai gesuiti lombardi, è un’imponente costruzione ad anfiteatro, con una cupola ovale dalle ardite nervature in leghe metalliche leggere, le mura in cemento armato, il tetto di fogli di plastica.
La vigilia del Natale 1976, il vasto cortile e la chiesa della missione si riempiono di popolo, comunità di villaggio che vengono anche da lontano. Già prima della Messa di mezzanotte nella chiesa non entra più nessuno e nel cortile sono accampati centinaia di fedeli.
La gioia della festa e del ritrovarsi assieme esplode. Il popolo cristiano, che viene da un anno di isolamento, di fatiche, di miserie, si scatena nel canto, nelle danze, nella percussione dei tamburi e dei balafon, nel suono dei pifferi. L’interno della chiesa di Kabalaye è un mare in tempesta: la gente canta tutta assieme, molti danzano, ciascuno fa più rumore che può battendo ritmicamente le mani e i piedi per terra nell’accompagnare i canti della corale, che sono i nostri antichi canti natalizi tradotti nelle lingue locali. La gioia è straripante, contagiosa, acre e densa la polvere che si alza dal pavimento, il ritmo dei tamburi e dei balafon travolgente.
In sacrestia siamo quattro sacerdoti pronti ad uscire per la Messa. Ma come si fa, in quella baraonda indescrivibile? Il massiccio e torreggiante fratel Antonio Mason sale sull’altare, abbranca il microfono, fa segni imperiosi di tacere e grida: «Silenzio! Basta!» nelle tre o quattro lingue africane che conosce, oltre che in francese.
Ma nessuno se ne dà per inteso. La sua voce possente, ingrandita ad un livello assordante da un buon impianto di amplificazione, è ridicolizzata dal frastuono che quelle centinaia di africani producono tutti assieme. Mi viene in mente il fragore delle cascate di Iguaçù e del Niagara. Cupola e pareti della chiesa tremano, sembra stia per crollare l’intera struttura del grande anfiteatro.
Antonio torna in sacrestia sconfitto, sudato, sgolato. «Lasciamoli sfogare ancora un po’» dice. Non si può fare altro. Intanto, quella fonte di decibel impazziti che è la parrocchia di Kabalaye (chiesa e cortile), ha attirato dalla città un’ondata di curiosi musulmani e animisti. Vengono a vedere l’esplosione di gioia che il Natale è capace di suscitare nel popolo cristiano.
«Ecco un modo originale di annunziare il Vangelo in Africa - dice il parroco, padre Corrado Corti. - Sono convinto che questa espressione autentica dell’unità e della gioia di un popolo, per i musulmani e per gli animisti vale più di tutte le nostre prediche sul Natale».
Piero Gheddo
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