Insegnare educando è rischioso. Ne va della faccia propria (in senso letterale) che deve misurarsi con la libertà altrui...
del 08 ottobre 2008
Il professor Luigi Sergi, di Novara, ha ricevuto un pugno al volto da un suo allievo di terza media (14 anni) al quale aveva (giustamente) negato di uscire di nuovo dalla classe dopo l’intervallo.
 
«Il ragazzo aveva dei problemi – ha detto il professore – e l’ho sempre aiutato; ora mi crolla il mondo addosso, proprio non mi aspettavo una tale reazione».
 
Grazie professore, coraggio professore. Non si demoralizzi, non demorda non abbandoni il campo. Sarebbe certamente comprensibile dopo un simile sfregio ad una onorata carriera: peraltro del tutto imprevedibile e non corrispondente a nessuna volontà vessatoria da parte sua. Tutt’altro! Quello che vorremmo dirle è che lei ci ha insegnato, pur nella drammaticità del caso, che cosa è la scuola oggi. Una realtà nella quale le categorie universali diventano, in ultima istanza, particolari. La classe non è formata da “alunni”, ma da quelle persone lì, nome e cognome. E oggi, tra l’altro, ai Mario e alle Caterine si affiancano a ritmo vorticoso gli Allam e le Jamile.
 
La scuola italiana di origine gentiliana, espressione di una cultura fondata sulla idea della sintesi si è rovesciata nel suo contrario: l’eccesso dell’analitico e la mancanza di punti di riferimento comuni. In questo guazzabuglio, nel quale l’insegnante talvolta si perde ed è tentato di gettare la spugna, ciò che resiste è l’idea che la professione docente poggia su una matrice che non deriva dall’organizzazione, ma da un impeto ideale. Si tratta di quella passione ad insegnare che si coglie a prima vista e per la quale il docente è attento non solo a ciò che comunica (abilità, saperi, competenze, ecc.), ma anche al perché lo comunica. La differenza non è da poco perché implica l’interesse profondo per la persona alla quale si insegna.
 
Il professor Sergi, rammaricato, ha detto che si era preso cura altre volte di quell’alunno. E questo è indice di una passione educativa che dà forma e significato alla cultura disciplinare. Ma tutto come abbiamo visto si gioca poi nel campo dell’incontro tra persone e non nell’astratto del general-generico.
 
Insegnare educando è rischioso. Ne va della faccia propria (in senso letterale) che deve misurarsi con la libertà altrui. Il ragazzo la sua libertà l’ha usata: male, povero ragazzo. Sarà punito, com’è giusto che sia. Ma il professor Sergi non potrà mai più togliersi dalla testa l’impressione che il pugno sia stato una maldestra risposta individuale ad una sua richiesta. Insomma, se non si fosse imposto non sarebbe arrivato il pugno. Era bene non chiedere? Era giusto sottrarsi all’incontro-scontro? No, perché se non si chiede nulla e nulla si pretende, la scuola diventa il camposanto delle buone intenzioni e delle perfette programmazioni (inutili).
 
Non si scoraggi dunque professore, lei ci ha insegnato cosa vuol dire rischiare dentro un rapporto: vuol dire attendersi sempre una risposta. A volte negativa, ma tante volte spalancata alla bellezza della conoscenza.
 
Recuperi fiducia in questa professione e, se vuole, recuperi fiducia nella possibilità di quel ragazzo di ritrovare in lei un adulto capace di introdurlo nel mondo. Magari fra qualche tempo.
Fabrizio Foschi
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