Che fine hanno fatto i difensori delle radici cristiane dell'Europa? Furono molti quelli che si accodarono a Giovanni Paolo II ai tempi della discussione sul loro inserimento (mancato) nel preambolo della Costituzione europea. Non senza qualche forzatura e strumentalizzazione...
del 25 settembre 2008
Che fine hanno fatto i difensori delle radici cristiane dell'Europa? Furono molti quelli che si accodarono a Giovanni Paolo II ai tempi della discussione sul loro inserimento (mancato) nel preambolo della Costituzione europea. Non senza qualche forzatura e strumentalizzazione: in pieno panico post-11 settembre, la riscoperta dell'identità cristiana veniva presentata come inderogabile per prepararsi all'imminente scontro di civiltà con il mondo islamico e per fronteggiare le insidie del relativismo laicista.
 
Specie tra i cosiddetti «teo-con» e «atei devoti», e nelle loro aree politiche di riferimento, l'orgogliosa rivendicazione del Dna cristiano dell'Europa (e, va da sé, dell'Italia) non sembra però suscitare dubbi o proteste nel momento in cui, sui temi della sicurezza e dell'immigrazione, l'Unione europea e il governo italiano hanno scelto la cosiddetta «tolleranza zero» (che a volte sembra semplicemente intolleranza). Ci riferiamo alla direttiva europea del 18 giugno sui rimpatri dei migranti irregolari, al decreto legge sulla sicurezza varato dal nostro esecutivo e alle ordinanze del Viminale sulla schedatura dei minori rom. Tutti provvedimenti che rivelano una miopia nell'affrontare il fenomeno dell'immigrazione - riduttivamente inteso come problema di ordine pubblico -, trascurano le dimensioni dell'integrazione e dell'accoglienza e rischiano di alimentare sentimenti xenofobi.
 
È persino banale sottolineare come, su tali questioni, un'attenta lettura delle Scritture abbia molto da insegnare. Tuttavia, diversi appassionati difensori dell'identità cristiana della nazione e del continente oggi tacciono. La Chiesa, invece, non smette di farsi sentire. Benedetto XVI ha sottolineato a più riprese come l'accoglienza dello straniero sia alla base dell'identità europea, coerentemente con la tradizione ebraico-cristiana. Alla sua voce si aggiungono quelle di altri pastori e semplici credenti (anche di altre confessioni): non teoreti, ma testimoni di solidarietà concreta. In questo numero di Popoli vi sono due autorevoli esempi: l'articolo del direttore della Caritas ambrosiana (p. 29) e la lettera della Congregazione degli istituti missionari italiani (p. 4). Ne aggiungiamo qui un terzo: sono parole del cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato (20 giugno): «Molti fuggono da condizioni intollerabili, ma che dovrebbero divenire sopportabili alle vittime, quando sulla scorta di un malinteso senso di sicurezza, gli Stati e i legislatori erodono il diritto alla protezione, all'asilo, all'aiuto umanitario. In realtà, senza la memoria di questo dolore e della speranza spezzata, si edifica un'Europa virtuale, avulsa dal mondo globale. L'esigenza di futuro non è mai 'clandestina' e non è mai reato».
 
Di fronte a tutto ciò, il cristiano prova due sensazioni, opposte tra loro: la gioia di appartenere a una comunità che non cambia le proprie priorità in base alle convenienze politiche o agli umori dell'opinione pubblica, e lo sconcerto per la sfrontata furbizia di chi, in nome dei propri interessi di bottega, nei giorni pari riscopre la propria irrinunciabile identità cristiana e in quelli dispari accusa la Chiesa di ingenuo buonismo.
 
Stefano Femminis, Direttore di Popoli
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