Sono parte di un popolo che per anni ha sofferto una brutale dittatura, che ha annullato la coscienza personale della gente, eliminato Dio dal vocabolario, mettendo in prigione chi cercava di salvarlo: non solo preti e vescovi ma laici, giovani e adulti, migliaia di persone che hanno testimoniato con il martirio la fedeltà a Dio, alla Chiesa, alla libertà. Nessuno ne parla: sono solo degli «albanesi», da cacciare, da evitare!
del 29 gennaio 2008
Sono parte di un popolo che per anni ha sofferto una brutale dittatura, che ha annullato la coscienza personale della gente, eliminato Dio dal vocabolario, mettendo in prigione chi cercava di salvarlo: non solo preti e vescovi ma laici, giovani e adulti, migliaia di persone che hanno testimoniato con il martirio la fedeltà a Dio, alla Chiesa, alla libertà. Nessuno ne parla: sono solo degli «albanesi», da cacciare, da evitare!
Abbiamo perso la memoria: questa cultura di morte è nata dall’esasperazione di una dottrina comunista, portata alle estreme conseguenze in una terra che è stata militarizzata e ingabbiata. In alcuni villaggi, le campane delle chiese, per salvarle, sono state sotterrate, perfino l’alveare delle api era utilizzato per nascondervi il Libro sacro.
Non c’è da meravigliarsi se coscienze spente, se educazioni mancate, se le seduzioni del mondo occidentale, hanno spinto molti, troppi giovani a lasciare il paese per cercare qui facilmente, senza fare fatica, un benessere materiale, che pure non ha riempito il cuore dei giovani del mondo occidentale.
C’è da scandalizzarsi invece della facilità con la quale anche uomini politici, che rivestono ruoli di responsabilità, attizzino forme di odio contro di loro e contro i «buonisti», generalizzando i fatti, non aiutando a capire, enfatizzando i loro crimini, come fossero gli unici a commetterli, gli unici in prigione.
È vero che sono tanti gli immigrati rinchiusi nelle nostre patrie galere, ma non sempre per reati commessi contro le persone o contro il patrimonio: una maggiore conoscenza dei meccanismi giudiziari li porterebbero facilmente in libertà.
Il problema è un altro e riguarda i nostri atteggiamenti nei loro confronti: se alla violenza rispondiamo con altrettanta violenza, raccogliamo solo vento, tempesta. Se non tentiamo di capirli, sarà difficile l’accoglienza, il grado di diffidenza aumenterebbe come la voglia di ghettizzarli, di eliminarli fisicamente. Non sono rari nel Paese quelli che invocano l’inasprimento delle pene e la pena di morte!
La questione dell’immigrazione non è questione di «ultras », da curve dello stadio: penso sia questione di cuore, oso dire, anche se molti non lo dicono, questione di Dio, che non emargina lo straniero, ma lo difende. Almeno così si legge nel Vangelo, dove spesso lo straniero, come la donna, è preso a modello di fede nei confronti dei «giusti » farisei.
 L’episodio di violenza di Besano, nella verde valle del Ceresio, dove un innocente è morto per sedare una rissa, va condannato, la giustizia deve compiere i suoi passi, cercando le eventuali responsabilità anche di altri, bene l’origine della rissa. Allo stesso tempo, occorre superare passionalità e superficialità perché il giudizio e la condanna siano equilibrate e serene e aiutino chi ama la violenza ad abbandonare un linguaggio che la nostra cultura rifiuta, perché, che si creda o no, è cultura cristiana, cultura di pace, di riconciliazione, di giustizia e di perdono, radicata nei valori del Vangelo.
Più volte ho invocato da Madre Teresa di Calcutta, donna albanese, un aiuto a capire questi nostri fratelli albanesi, così poco amati, molti dei quali hanno ritrovato qui, in Italia, l’antica fede dei loro padri, lavorano sodo e si sono costruiti la loro famiglia. Il segreto non è forse nell’accoglienza e nel sostegno di quei «buonisti» che, invece di parlare, hanno scelto di pagare di persona per stare con loro e con altri, giunti dal mondo dei poveri in condizioni disperate?
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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