L'articolo di Mario Delpiano «PG, il pericolo di una deriva», pubblicato nel numero di dicembre 2007 di «Note di pastorale giovanile», fa certamente pensare... L'accordo, in linea di massima, è facilmente scontato. Sono convinto però che la questione attuale della pastorale giovanile vada affrontata allargando ulteriormente l'angolo di prospettiva...
del 23 febbraio 2008
L’articolo di Mario Delpiano «PG, il pericolo di una deriva», pubblicato nel numero di dicembre 2007 di «Note di pastorale giovanile», fa certamente pensare. Chi crede alla pastorale giovanile e gioca la sua competenza e la sua passione per aiutare tutti i giovani di oggi ad incontrare il Signore Gesù, non può restare indifferente alle sue provocazioni.
L’abbiamo pubblicato sulla rivista per sollecitare a pensare, in modo realistico, a quello che sta capitando oggi, al di là delle espressioni ad effetto. E per costringere a prendere posizione: teorica prima, e pratica in coerenza, dopo.
Riconosco la competenza professionale di Delpiano e la calorosa compartecipazione a moltissimi vissuti ecclesiali di pastorale giovanile. E ho meditato con attenzione sulle cose che ci ha detto. L’accordo, in linea di massima, è facilmente scontato. Sono convinto però che la questione attuale della pastorale giovanile vada affrontata allargando ulteriormente l’angolo di prospettiva. Delpiano non ha voluto imbarcarsi in una impresa tanto impegnativa. Tra le righe, però, non ci vuole molto ad intravedere una serie di temi urgenti.
Ci provo io, a veloci battute, lanciando temi su cui credo sia necessario oggi pensare con calma, ai differenti livelli, per portare a frutto il prezioso lavoro costruito in questi anni, sul piano della maturazione teorica e soprattutto su quello, ricchissimo, delle concrete realizzazioni.
Le note che seguono hanno quindi la doppia funzione di aprire un confronto sull’articolo citato e suggerire un indice di questioni aperte che andrebbero, una buona volta, affrontate con calma. Anche se tra le righe ci vuol poco a scoprire il mio punto di vista, non ho nessuna pretesa di risolvere le questioni evocate. Chiedo solo di considerarle anche da una prospettiva globale.
 
 
Attenzione ai modelli
 
A monte di ogni progettazione e della scelta delle cose da fare in modo prioritario, stanno dei riferimenti teorici. Non necessariamente sono consapevoli e molte volte ci si rifiuta persino di verbalizzarli. Restano però decisivi, tali da orientare e condizionare le prassi successive e la valutazione dei risultati raggiunti. Li chiamo «modelli» proprio per la loro funzione ispiratrice.
In una stagione di pluralismo come è quella che stiamo vivendo nel bene e nel male, mi sembra indispensabile farli emergere, attivare un confronto serio, programmare adeguate verifiche e validazioni.
La fretta che ci caratterizza e la tentazione sempre incombente di preferire il fare al pensare, spingono a rifiutare operazioni come queste. Possono rallentare il passo, si dice; peggio, possono attivare processi critici nei confronti dei dettati… dall’alto. Proprio questa reazione evasiva mi spinge a chiedere decisamente l’attenzione verso tre ambiti: a livello teologico, antropologico, educativo: ai tre livelli cioè su cui si distende effettivamente ogni progetto di pastorale giovanile.
 
Modelli teologici
La pastorale giovanile, nel suo significato più autentico, si muove sul sostrato di una esplicita esperienza religiosa, qualificata e orientata verso l’incontro personale con il Dio di Gesù, nella comunità ecclesiale.
È evidente che questo non significa ridurre la pastorale giovanile ad un insieme di pratiche religiose e devote, e neppure discriminare il coinvolgimento delle persone sulla esplicita e consapevole appartenenza ecclesiale. Questo è ormai terreno conquistato, anche se non mancano i nostalgici dei vecchi modelli devozionistici. Non possiamo però ridurre la pastorale ecclesiale ad una preziosa opera di supplenza educativa. Ha bisogno dell’educazione, misura le sue prassi sulle esigenze educative, ma si sporge decisamente verso l’ambito della evangelizzazione esplicita e decisa, con coraggiosa ricentratura di ogni prassi attorno alla persona di Gesù, al suo messaggio, vissuto e proclamato nella Chiesa.
Mi rendo conto che è più facile proclamare l’esigenza che mostrare come può essere realizzata. Ho l’impressione che il terreno, teorico e pratico, sia ancora conteso tra i tifosi di una educazione, intelligente e agguerrita, capace di bastare a tutto e di risolvere tutti i problemi, come se il riferimento a Gesù potesse restare solo il traguardo di un lungo cammino; e coloro che dichiarano finiti i tempi degli esperimenti, dei mezzi termini, delle cose dette e non dette.
I primi trovano mille ragioni nel crogiuolo delle difficoltà che stiamo attraversando. I secondi si fanno forti con rimpianti aggiornati, con citazioni ad effetto, con richiami verso realizzazioni felici e purtroppo spesso un poco discriminanti nei confronti dei meno sensibili.
Sono convinto che la via giusta non stia nel mezzo, organizzando tempi e modi un poco eclettici. Sta, secondo me, nell’inventare modelli, teologicamente radicati, capaci di recuperare il ricco vissuto che ci ha preceduto e lo sguardo al futuro (anche culturale) a cui ci sollecita la fede nel Crocifisso risorto.
Non mi sembra sufficiente costatare che c’è molto lavoro da fare.
Dovremmo costruire un accordo su alcuni criteri che siano capaci di valutare l’esistente (oltre le logiche del consenso, dell’applauso, dei personaggi, dei numeri…).
Ne immagino alcuni, almeno per aprire il confronto:
* L’autenticità dell’esperienza religiosa sta nella sua capacità di constatare l’insufficienza (senza disconoscerne importanza) di tutto quello che costruiamo con la fatica delle nostre mani, per spalancare l’attesa verso un mistero, da invocare nel profondo, e da accogliere come dono interpellante. Una esperienza gratificante difficilmente può essere autentica esperienza religiosa, perché non apre all’invocazione, ma sollecita alla rassicurazione (chi la pone e chi la propone). Mi piacerebbe operare una verifica coraggiosa a questo livello.
* Nella formulazione dei contenuti della fede e nelle loro diverse espressioni, il rapporto con la cultura è ormai una conquista assodata. Esso riguarda tutta la vita ecclesiale e non può certamente essere frenato solo da quello che il vissuto ci consegna come ricchezza… quasi indisponibile. Il confronto non può però prescindere, per un discepolo di Gesù, dalla «memoria pericolosa» della croce. Il Risorto che ci dà la vita in pienezza, è sempre il Crocifisso che ci ha donato la vita accogliendo la morte. Ho paura che sia facile dimenticarlo, soprattutto in una stagione che ha esorcizzato o spettacolarizzato la morte. Solo nel confronto con la morte possiamo sperimentare la qualità autentica della vita. Il confronto con la cultura, dalla parte della morte del Crocifisso risorto, contesta e trasforma la cultura. L’esito è sempre un fatto culturale… ma che si avvicina maggiormente all’autenticità, solo quando si lascia contestare dal richiamo impietoso della nostra debolezza, fragilità, esperienza di peccato.
* Il terzo criterio richiama la qualità dell’incontro con il Signore Gesù. Oggi fortunatamente sappiamo che esso è l’esito irrinunciabile di ogni scelta e attività pastorale. Tre dimensioni almeno non possiamo però dimenticare: l’incontro con Gesù è orientato al coraggio di affidarsi pienamente al mistero di Dio, unica ragione della nostra esistenza; l’incontro con il Dio di Gesù è sempre misterioso… dunque poco verificabile attraverso i parametri normali che verificano gli incontri e le condivisioni, anche se di una verifica certa abbiamo bisogno per non ridurre tutto il processo ad un vuoto rincorrersi di parole e di prassi; l’incontro si realizza normalmente in un processo che ha i suoi tempi e le sue modalità molto soggettive, anche se il tutto va misurato su eventi normativi che giudicano ogni soggettività. Dove verificare l’autenticità dell’incontro in una stagione come è la nostra, dove tante cose una volta pacifiche non lo sono più? La misura certamente non è solo la proclamazione soggettiva, la pratica etica, la partecipazione ecclesiale. Ma «quale», allora?
 
Modelli antropologici
Con l’invito a fare attenzione e a verificare i «modelli antropologici», in uso nelle realizzazioni di pastorale giovanile, penso alla figura di uomo e di donna che offre un riferimento, almeno implicito, a tutto il processo.
La cosa è seria, come ciascuno sa benissimo. Sono convinto che qui si giochi uno dei nodi dell’educazione alla fede, della sua proposta e del consolidamento delle decisioni personali. In una stagione di cambi culturali profondi, non basta né riaffermare il consolidato né inventare gratuitamente il nuovo.
La pastorale giovanile può essere condizionata, a questo riguardo, da due influssi che considero pericolosi, quando non ci si pensa con attenzione.
Da una parte abbiamo i frequenti richiami ai «santi»: tutti coloro che hanno realizzato la loro esistenza secondo il progetto di Dio e che rappresentano il punto di tensione per ciascuno di noi. Sono tanti e sono molto diversi: questo è bello, anche se un poco pericoloso.
La qualità di vita da essi realizzata riguarda indubitabilmente il loro personale rapporto con Dio. Quello che viene sottolineato, proposto, enfatizzato rappresenta un’operazione sempre funzionale ai modelli teologici dominanti. Per questo, nella storia della spiritualità cristiana, si passa facilmente da una categoria di modelli ad un’altra.
La questione inquietante oggi è: a chi vogliamo riferirci? Chi proponiamo – nelle raccomandazioni, nelle devozioni, nelle raffigurazioni – come punto di riferimento per una vita cristiana impegnata? Non basta dare una mano di bianco a qualche parete affrescata o stendere un velo su qualche quadro d’autore.
Penso, per esempio, a formule di preghiera in uso frequente. Anche quando sono cambiati i modelli di spiritualità, certe formule sono ormai tanto consolidate da rappresentare il repertorio classico. Non basta certo a consolarci la constatazione che alla foga del canto o delle espressioni non sempre corrisponde la consapevolezza di ciò che si è detto.
A questo primo livello, abbiamo molto lavoro – di verifica e di progettazione – da fare.
Al secondo livello colloco l’attenzione verso i personaggi che fanno mito e ispirazione a livello giovanile, e non solo. La nostra cultura ce ne propone una rassegna amplissima, manovrata ad arte per evidenti ragioni non solo commerciali. Come reagiamo in quanto operatori di pastorale giovanile? Non possiamo sognare di vivere in un’isola sperduta, dove tutto sia gestibile a piacimento; ma qualcosa di diverso – attori, sportivi, personaggi, divi di tutti i gusti – credo sia possibile e urgente immaginare. Penso, in concreto, ai luoghi di incontro e di convocazione giovanile, agli spettacoli televisivi, alle persone invitate per solennizzare le nostre celebrazioni…
 
 
Modelli educativi
La terza area di attenzione e di verifica riguarda i modelli educativi proposti: in teoria e nella pratica quotidiana.
Il discorso si farebbe lungo.
Sul piano teorico, sulla qualità relazionale, interpersonale e collettiva, abbiamo ormai costruito una letteratura abbondante e raffinata. Le difficoltà non stanno a questo livello, per fortuna.
Credo sia urgente attivare un’attenzione critica, sul piano pratico, alla qualità delle relazioni quotidiane tra giovani e adulti, a quelle che costituiscono la trama comunicativa in cui si distende l’esistenza, ai processi attraverso cui cerchiamo di condividere valori e significati di vita.
Nel profondo di tutto questo si colloca – significativa o stonata – anche ogni esplicita proposta evangelizzatrice.
Nella nostra stagione culturale, di incertezza e di orfanità diffusa, le esperienze forti, le proposte decise e i personaggi carichi di fascino propositivo, sembrano vincenti. Qualcuno pensa ad essi con la nostalgia di avere finalmente tra le mani la soluzione alla crisi diffusa. Chi ci riesce, fa l’incantatore di serpenti… per poter godere dei risultati della sua fatica; e chi sa di non farcela personalmente, invita i migliori prodotti sul mercato.
Sono convinto che il silenzio e la rinuncia siano la peggiore soluzione, visto che gridano soprattutto coloro che sarebbe meglio – per la vita e la speranza – che fossero legati al silenzio. Ma mi preoccupa la riduzione del necessario recupero propositivo e della via preziosa del far fare esperienze significative… ad una relazione comunicativa che non chiami esplicitamente a libertà, responsabilità, consapevolezza, accogliendo anche i rischi connessi.
Oggi, chi è impegnato nella pastorale giovanile ha molto da interrogarsi a questo proposito, sul piano culturale, politico e, soprattutto, ecclesiale.
 
 
Attenzione ai processi
 
Il provocante articolo di Delpiano, a cui ho fatto riferimento aprendo questa mia riflessione, è decisamente orientato su questo livello. I fatti che sottolinea, le preoccupazioni che rilancia e le prospettive che lascia coraggiosamente intravedere, sono soprattutto orientate su questa spinosa questione.
Il suo è un invito a verificare.
Lo condivido e lo rilancio, risparmiando parole ulteriori.
L’invito alla verifica non è, di natura sua, proposta di soluzioni, soprattutto se le interpretiamo alternative ai modelli diffusi. Ci dobbiamo pensare però, con calma e con coraggio. Soprattutto dovremmo darci dei criteri valutativi che assomiglino più alla logica evangelica che a quella delle grandi manifestazioni consumistiche.
Qualche tema però lo voglio rilanciare, per chiedere di fare il punto ed eventualmente di progettare.
 
Che fine hanno fatto i «laboratori della fede»
Siamo tutti rimasti colpiti dall’invito con cui Giovanni Paolo II ha concluso la GMG di Roma: costruire laboratori della fede, per aiutare i giovani di questo tempo a ritrovare la gioia dell’incontro, personale e maturo, con il Signore Gesù.
Non ho la competenza ricognitiva né l’autorevolezza necessaria per valutare quello che è capitato in Italia dopo questo invito. Ho paura però che i frutti di realizzazione non siano adeguati all’entusiasmo con cui è stato accolto l’invito.
Mi piacerebbe che ai diversi livelli si attuasse una verifica coraggiosa.
Chi condivide la raccomandazione e ne apprezza l’urgenza, si preoccupa, prima di tutto, di identificare il contenuto qualificante e poi tenta realizzazioni adeguate, per evitare di produrre una etichetta dai colori sgargianti e applicarla poi ad attività che hanno poco a vedere con la proposta.
Il termine «laboratorio» evoca un ambiente provvisto di strumenti e materiali idonei, e una situazione (anche temporale) che richiede alle persone una partecipazione diretta per sperimentare e produrre risultati. Il laboratorio è un metodo attivo di apprendimento che chiama in causa l’alunno perché personalmente o in gruppo sperimenti e lavori sul proprio apprendimento in un ambiente idoneo, avendo a disposizione un supporto preparato dall’insegnante.
A differenza di quello che si realizza nella «scuola», dove la comunicazione è lineare e discendente, nel laboratorio viene assicurata una trama comunicativa che lega tutti i partecipanti all’evento. Ciascuno ha una precisa funzione: l’adulto sta al gioco comunicativo, come testimone di eventi, più grandi di lui, che lui ha compreso e vissuto nella sua soggettività e che rende disponibili agli altri, per ricomprendere a sua volta ciò che trasmette. Anche i cosiddetti destinatari sono soggetti dell’atto comunicativo, chiamati ad offrire il contributo della loro esperienza, competenza e ricerca, per formulare meglio, nella situazione concreta, l’oggetto della comunicazione. Esso non appartiene a nessuno dei partner: ciascuno lo cerca, lo vive, lo sperimenta. Nell’atto della sua accoglienza si scatena un processo di riformulazione, orientato a dire il dato di sempre nell’oggi del tempo, dello spazio, della storia del gruppo in laboratorio. A tutti sta a cuore non tanto la ripetizione di ciò che è stato comunicato, ma la sua riespressione in fedeltà dinamica e la trasformazione della persona (tutti i partner della comunicazione) e dei suoi atteggiamenti, secondo la prospettiva di vita suggerita dalla comunicazione.
Le strumentazioni non sono solo in funzione del clima che si vuole costruire nell’ambiente della comunicazione. Sono invece orientate, prima di tutto, verso il consolidamento di un esito, costituito non da competenze riespressive ma esistenziali.
 
Rapporto ordinario e straordinario
Uno dei temi più rilevanti dell’articolo citato riguarda il rapporto tra ordinario e straordinario nella prassi pastorale. Sono anch’io convinto che rappresenti una questione nodale. Lo è in teoria… ma ormai sappiamo tutto. Lo è soprattutto nella pratica spicciola di molte comunità ecclesiali.
Come sappiamo, per tanto tempo tutto si svolgeva nel recinto protetto del proprio gruppo o, al massimo, di un territorio ben controllato. Le iniziative verso l’esterno erano selezionate e accertate dai responsabili. Qualche educatore sembrava ammalato di gelosia.
La bellissima esperienza delle «giornate mondiali della gioventù» e l’inflorescenza di iniziative collegate e simili, hanno modificato decisamente la prospettiva. In molte diocesi e in molte comunità ecclesiali tutto gira in ordine a queste scadenze. Ha molta ragione Delpiano di lamentarsi della cosa. Nelle sue parole rimbalza l’eco di tanti vescovi, sacerdoti e laici responsabili.
Sarebbe triste se si chiudesse una stagione, per ritornare ai vecchi modelli, o se si andasse avanti come se nulla fosse.
Di soluzioni se ne possono immaginare tante. Per coerenza con le scelte di questa mia riflessione, non lo voglio neppure tentare.
Un tema, però, merita attenzione e verifica. Lo dico con qualche battuta che dà voce a molti vissuti interessanti.
Indubbiamente il centro formativo è l’intimità di ogni persona, quello spazio di silenzio dove tutte le voci rimbalzano e dove la persona si trova sola a dover scegliere e decidere. Fuori dall’interiorità personale, tutto resta solo inutile spettacolo.
L’interiorità ha bisogno di essere servita e sostenuta: alimentata, in una parola. Il materiale di sostegno è costituito dalle diverse esperienze: quelle di routine e quelle speciali, a forte presa. Il loro ritmo e le ragioni delle scelte sono legate alla «fame» del soggetto, per non dare panini robusti a chi sa nutrirsi solo di latte; o viceversa. Non dipendono dall’esterno, dalle convenienze o dalle pressioni. Dipendono dal mistero di ogni persona. Oggi certamente l’urgenza è più alta, perché le proposte di cui siamo circondati sono più pericolosamente seducenti.
Le esperienze, quelle di routine e quelle forti, devono dialogare con l’interiorità personale. Ci si deve preoccupare di questo processo. Va organizzato, sostenuto, orientato.
Tutto ha bisogno di verifica per la sua validazione. Il rapporto tra ordinario e straordinario si dovrebbe verificare sulla qualità di sistemi simbolici che vengono poi prodotti o rinnovati nell’ordinario. Se tutto resta come prima o se affiora solo la nostalgia dei tempi forti… ho paura che il processo si sia bloccato a qualche livello.
Non so bene cosa stia capitando oggi, ma tante voci mi fanno nascere il sospetto di un rapporto conflittuale e non formativo tra ordinarietà e straordinarietà, tra esperienze forti e interiorità personale.
Le mie battute non risolvono i problema. Rilanciano l’urgenza e chiedono verifica e progettazione. Solo questo. Ma non è poco.
Le stesse cose si potrebbero dire a proposito del rapporto gruppo e territorio.
 
Verso una nuova scansione temporale
Una delle lamentele più frequenti tra gli educatori accorti riguarda la crisi della scansione temporale. Tutto infatti rischia di essere misurato sul presente: un presente a fuoco di artificio che, appena esploso, lascia lo spazio al successivo. Del futuro abbiamo solo paura e il passato è nostalgia o inconsapevolezza.
Mi chiedo: certo, non ci sta bene questo ritmo; cosa possiamo fare per invertire il processo, senza tornare alla scansione classica, ormai chiusa per sempre?
Qualche anno fa ci abbiamo pensato e sono stati immaginati dei modelli formativi nuovi, per andare dal presente al passato verso il futuro. Oggi la diffusa crisi di speranza – triste esito del presentismo – ci spinge a riprendere con forza l’urgenza. Non possiamo rassegnarci a raccontare solo storie di guerre come rimedio ad altre guerre, e di uccisioni persino nello stesso ambito familiare.
 
 
Attenzione ai contenuti
 
L’attenzione ai contenuti è oggi, per fortuna, patrimonio abbastanza comune. Sollecitare verso un’attenzione ai contenuti sarebbe operazione semplice, se ci mettessimo d’accordo sul suo ambito e su eventuali criteri di verifica, superando alcuni facili luoghi comuni. Ma ho l’impressione che le cose non vadano proprio così.
Non basta riconoscere che anche tra i giovani più impegnati c’è una diffusa carenza di conoscenze relative ai temi della fede cristiana. Lo si deve a tante ragioni: la crisi dei processi di socializzazione religiosa, la soggettivizzazione che pretende l’ultima parola anche sulle cose che sembrano intoccabili e, certamente, anche il lavoro abbastanza scarso e precario fatto per riformulare adeguatamente le espressioni – contenutistiche e celebrative – della stessa esperienza cristiana.
Di conseguenza, la soluzione non potrà percorrere una sola direzione. L’attenzione verso i contenuti comporta, secondo me, un confronto serio su alcune questioni pregiudiziali.
* Purtroppo la tradizione formativa ha messo tutti i contenuti della fede cristiana sullo stesso piano o, peggio, li ha organizzati attorno a criteri più funzionali e etici che dogmatici. Chi frequenta ogni tanto la celebrazione del sacramento della penitenza, anche con tutta la buona volontà di questo mondo, possiede punti fissi di pentimento (la messa domenicale, le «parolacce», il sesto comandamento…) e ignora le responsabilità sociali, la fiducia in Dio, la confessione dell’assoluta signoria di Dio sulla storia contro ogni idolatria (di cose e di persone…). Da questa organizzazione dei contenuti della fede si fa fatica ad uscire, anche perché per chi propone e per chi vuole realizzare, tutto questo appare più semplice del suo contrario. Basta provare a chiedere a chi si lamenta della diffusa «ignoranza religiosa» a livello giovanile, quali sono i contenuti che andrebbero decisamente assicurati, per constatare come l’esigenza condivisa si frastaglia subito in mille rivoli.
* Ad un livello più impegnativo, l’attenzione verso i contenuti spalanca verso la verifica di come i contenuti riconosciuti abilitino ad una qualità di vita quotidiana (professionale, affettiva, «cristiana» nel senso pieno del termine). La preoccupazione non può riguardare la conoscenza, ma la prassi che da questa conoscenza dovrebbe scaturire ed essere significata. Spesso ci siamo ricordati come sia l’ambito degli atteggiamenti esistenziali quello su cui si misura «l’integrazione tra la fede e la vita». Le conoscenze hanno la funzione di orientare nella scelta degli atteggiamenti e di giustificare – a sé e agli altri – la decisione verso precisi atteggiamenti. La separazione tra atteggiamenti e conoscenze produce incoerenza o giustifica la soggettivizzazione. Sarebbe interessante dedicare un poco di tempo per verificare fino a che punto si condivida praticamente questa ipotesi e cosa si ponga in atto per consolidarla.
* Sul piano dei contenuti si colloca poi il grosso impegno «educativo» di assicurare l’interiorizzazione matura degli eventi (manifestazioni, celebrazioni, progetti…), a cui si partecipa. La partecipazione è nell’ordine del «fare proposte», suggerendo modelli e contenuti da assimilare. La maturazione personale si misura su questo livello progressivo di interiorizzazione personale. L’operazione è difficile, oggi soprattutto: apre alla facile criticità, produce confronti e paragoni, cerca ragioni e motivazioni, richiede una forte coerenza. Nella nostra situazione culturale viene ampiamente sfuggita… e nell’ambito della pastorale giovanile ecclesiale?
* L’attenzione ai contenuti e alla sua proposta chiama infine in causa il processo comunicativo necessario. Chi propone regole di matematica ha diritto di escludere la sua vita dal processo: la sua competenza è legata all’oggetto e non alla testimonianza. Nell’ambito della proposta cristiana è davvero tutto il contrario. Il silenzio o la formalizzazione del processo non potrebbe significare… invito alla conversione personale? Il processo comunicativo richiede anche un «che cosa» significativo. Non basta l’oggettività e la verità per un buon processo di comunicazione coinvolgente e sollecitante. Si richiede anche la significatività dei contenuti e la capacità di sostegno e di identificazione del contesto. Ho paura che alla eccessiva significatività (di contenuti e di contesto) di un tempo non lontano, faccia riscontro oggi l’eccessiva preoccupazione verso l’oggettività e la verità, con quelle oscillazioni che rendono difficile riconoscere che la proposta dei contenuti della fede riguarda decisamente la qualità della nostra esistenza quotidiana, e non un mondo lontano e inverificabile.
Il discorso si farebbe ancora molto lungo. Non ho né l’intenzione né l’autorevolezza per farlo. Ho solo voluto «reagire» ad una riflessione che mi ha provocato a pensare.
Una sola preoccupazione ha animato la mia riflessione. L’ho dichiarata in apertura e la riprendo a conclusione.
Stiamo vivendo una stagione felice e impegnativa per la pastorale giovanile. Le iniziative si moltiplicano; le persone impegnate sono davvero tante e altamente qualificate. Sono ormai lontani i tempi in cui anche non pochi responsabili facevano coincidere la pastorale giovanile con la sola attività associazionistica. Ormai, per fortuna, nella Chiesa italiana la pastorale giovanile è un evento che concentra risorse, persone, passione.
Sarebbe triste se la ricchezza di risorse e le preoccupazioni poco interiorizzate sfuocassero l’attenzione dai giovani e dal Signore Gesù, che li ama e che sollecita i suoi discepoli a servire la loro vita e a consolidare la loro speranza.
 
Fonte: Note di Pastorale Giovanile, gennaio 2008.
don Riccardo Tonelli
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