Ravvivare

La relazione vive di un duplice movimento di distacco e di prossimità. Occorre rinunciare al possesso dell'altro, ma essere per lui presenza pacificante.

Ravvivare

da Quaderni Cannibali

del 12 luglio 2007

«Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero troppo sensuale, vorrei quasi dire ‘possessiva’: provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere» (Etty Hillesum, Diario, Milano 1985, p. 33).

 

Le nostre immagini recedono, la rosa ritorna

ciò che era prima che noi la guardassimo.

Togliamo lo sguardo da dove l’acqua scorre

ed è di nuovo un puro fiume, non scriviamo nessun emblema

sugli alberi. Comincia un modo di vivere

dove non sentiamo il bisogno di strappare

i petali per avere il profumo della rosa

o di marcare i nostri lineamenti là dove l’acqua scorre.

(Elizabeth Jennings, «Beyond Possession», in Collected Poems, Manchester 1986).

 

 

Dare e ridare vita

 

Ho voluto iniziare con due citazioni la riflessione sul terzo verbo con cui Giuliana di Norwich caratterizza la relazione ,declinata da lei in termini di «misericordia» e «tenerezza»: il verbo è «ravvivare». Nel duplice senso, credo, di dare e di ridare vita. Confesso di trovarmi un po’ impacciato a inoltrarmi in questo discorso, non fosse altro perché la parola «vita» copre una tale varietà di significati da rischiare di essere alla fine vaporosa e fonte di non pochi equivoci. Per questo quelle che propongo non sono più che alcune noterelle, di cui il lettore saprà valutare il senso e la rilevanza.

E parto da un’immagine che appare, anche se in forma diversa, in tutte e due le citazioni messe in testa: la relazione/vita che oscilla tra l’ingoiare e il ritrarsi. Etty Hillesum, l’intellettuale ebrea morta ad Auschwitz nel 1943, non parla direttamente né della relazione né del vivere, ma la cosa si intuisce nel sentimento descritto con crudezza: «mangiare» ciò che piace, fosse anche un paesaggio! Il passaggio dalle cose alle persone è immediato, e peraltro nel contesto da cui è tratta la citazione Etty sta parlando di una sua infatuazione per S., partita con l’ingordigia esemplificata nelle metafore viste sopra. Ho saputo che in bengalese il verbo «mangiare» serve anche a esprimere il rapporto sessuale: significativo! In direzione opposta Elizabeth Jennings, poetessa cattolica inglese morta nel 2002, esprime già all’inizio del suo percorso poetico (il brano è del 1955) un tema su cui ritornerà spesso nella sua vasta produzione: la necessità, nella relazione, di andare «oltre il possesso», come recita il titolo della poesia citata, un atteggiamento che lei descrive appunto come «un modo di vivere». Ce ne sono altri? Certo, ma dal contesto sembrerebbe che questo sia l’unico modo che meriti veramente la qualifica di «vita».

 

 

La espulsione – separazione

 

Rinunciare alla voglia di impadronirsi, di «mangiare» l’oggetto desiderato, lasciare che la rosa sia rosa e l’acqua sia acqua: questo è vivere. Sono atteggiamenti in qualche modo già impliciti nel «custodire», ma che meritano di essere ripresi perché l’ingordigia è un istinto forte e radicato, prodotto diretto della nostra insufficienza strutturale, e tanto più dannoso quanto più appare come un’esigenza del tutto legittima: come si deve mangiare perché il corpo viva, così si crede che si debbano «mangiare» le persone che ci piacciono perché la nostra vita sia gratificante e felice, perché sia «una vita», come diciamo. Ma il primo blocco a questa illusione viene posto proprio all’inizio dell’esistenza: la madre deve espellere il bambino perché egli possa vivere, il cordone deve essere tagliato, metafora primaria di tutta una serie di separazioni, se non di vere e proprie «morti», necessarie perché una persona possa vivere.

La partenza di questa riflessione può sembrare anche troppo severa, ma quando è in gioco nientemeno che la vita non si può non essere seri e onesti con se stessi. Del resto l’espulsione-separazione è solo un momento del nascere e, aggiungerei, del vivere: l’altro momento, in qualche modo simultaneo, è che all’uscita dall’utero, per sopravvivere, il bambino deve trovare due braccia che lo accolgono. In questo duplice movimento di distacco e di prossimità la relazione vive e fa vivere.

 

 

Lasciar respirare

 

Possiamo provare a tradurre con altre parole questo doppio polmone in cui respira la vita. E la prima immagine è proprio suggerita dal verbo respirare. Noi sappiamo che cosa significa un tipo di relazione che giudichiamo soffocante, che ci toglie il fiato, come si dice, e dunque che ci impedisce di vivere. Lasciare uno spazio di aria attorno alla persona che amiamo, lasciarla respirare, è in fondo un lasciarla vivere, senza che siamo necessariamente noi a dettare le condizioni. Libertà, generosità, apertura, dove perfino la passione può trovare un spazio non fagocitante e non distruttivo, e dove il cuore che nella liberalità è diventato magnanimo, batte allo stesso ritmo della rosa e del fiume, come scrive la Jennings nella terza e ultima strofa della poesia citata all’inizio:

 

¬´Tu devi andare ancora pi√π a fondo, devi giungere a un amore

dove il pensiero è libero di lasciare che l’acqua scorra,

è generoso con la rosa dandole così la vita

e mettendo da parte persino la propria ombra;

fino a che il fiore e l’acqua si fondono con la libertà

della passione che non li rinchiude e non nasconde

le loro nature più profonde; ma il cuore è tanto forte

da battere con rosa e fiume in un solo canto».

 

È la stessa opera di purificazione di cui dà conto la Hillesum in un altro punto della stessa pagina di diario citata prima: «Il suo volto (di S.) c’è ancora, mentre lavoro, ma non mi distrae più, è diventato come un paesaggio amato e familiare che sta sullo sfondo. I suoi tratti sono sfumati, non vedo più un volto preciso – s’è dissolto in atmosfera, spirito, o altro che sia». Quando la relazione diventa una presenza pacificante è allora che si coglie al massimo la sua potenzialità di dare vita. È quando non è più necessario il tanto parlare, e al limite neanche un’eccessiva presenza fisica. E chiunque può misurare la distanza abissale che c’è tra un vivere percepito come «mangiare», e un vivere goduto nella sensazione di una vicinanza, così vasta da poter essere chiamata «sfondo», così delicata da poter essere chiamata «atmosfera», eppure proprio per questo così pervasiva e amorosa da aiutarci a vincere ogni senso di dolorosa solitudine.

 

 

Esistere: sapere che qualcuno ci ama

 

Credo che la relazione ravvivi le persone proprio nel suo dare senso al nostro essere: questo significa il pensarla come «sfondo». Esisto perché qualcuno mi ama. Vivo perché il mio essere al mondo dà senso a qualcuno, e riceve senso da qualcuno. Ogni altra forma di «vita» mi pare almeno seconda rispetto a questa che nasce dell’essere in relazione di cuore e di spirito con qualcuno. Non è una condizione che si raggiunge una volta per tutte. Ci vuole anche molto tempo per apprenderla. Il capire che si vive dando vita, che si dà vita accettando anche la legge della separazione, e che comunque una distanza di «respiro» va sempre interposta perché senza «aria» non si vive, così come è cruciale saper accogliere, o custodire, o sopportare: tutto questo è impresa che impegna un’intera esistenza.

C’è chi sostiene ai nostri giorni che per «ravvivare» una relazione che rischia di spegnersi può servire un’avventura extraconiugale. Non entro nel merito, e potrebbe anche darsi che un’esperienza obiettivamente negativa abbia delle ricadute positive. Ma quello che intravedo di sicuramente positivo in una relazione «viva» è la situazione che si crea quando la passione si trasforma in affetto, quando l’altro, amato, stimato e rispettato, è come una presenza rassicurante e feriale, o quando accade di poter dire, come scrive ancora la Hillesum, dopo che la voglia di «mangiare» è stata purificata, che «S. è completamente mio adesso, anche se domani dovesse partire per la Cina: me lo sento intorno e vivo nella sua sfera, se lo rivedrò mercoledì mi farà piacere, ma non sto più a contare nervosamente i giorni, come facevo la settimana passata» (p.35).

Domenico Pezzini

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