I dati pubblicati su Lancet: solo il 2% dei contatti stretti di uno studente positivo si contagiano. La proposta del direttore dell’Istituto Mario Negri: test salivari su tutti, a casa solo i positivi
Convivere, prima che con il virus, con la consapevolezza che in questa fase è impossibile fare previsioni a lungo termine. «Dobbiamo fermarci a 15 giorni, un po’ come i meteorologi, e questo non è necessariamente uno svantaggio» spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri, facendo passare le decine di fascicoli e studi accatastati sulla scrivania. Perché è con le conoscenze che la scienza acquisisce di giorno in giorno sul Covid – e le acquisisce costantemente, magari smontandole e rimontandole – che si fabbricano le decisioni politiche. A cominciare da quelle sulla scuola, «dove Dad e quarantene potrebbero essere superate dai dati».
A che dati si riferisce professore?
A quelli pubblicati dalla rivista Lancet settimana scorsa. Due le conclusioni dirompenti dello studio, condotto sui test salivari effettuati ogni giorno in 150 scuole britanniche. Primo: soltanto il 2% dei contatti stretti di uno studente risultato positivo alla variante Delta si contagia. Significa 2 studenti su 100, individuati proprio grazie ai test. Secondo dato: i test salivari sono molto più efficaci di quelli naso-faringei, dal momento che nella saliva la distribuzione del virus è più omogenea. Tanto che alcuni soggetti risultati negativi al tampone naso-faringeo sono poi risultati positivi al salivare.
Questo cosa significa?
Che piuttosto che costringere un’intera classe a stare in quarantena, cioè a casa in Dad, nel caso di un contagio si può procedere a test salivari mirati: avranno un costo contenuto, identificano con certezza chi è contagiato e chi no, risparmiano un’interruzione generalizzata delle lezioni. È una decisione che potremmo prendere presto.
Come per le quarantene dei vaccinati...
Se un vaccinato entra in contatto stretto con un positivo si effettua un test. Se nei giorni successivi il test risulta negativo, la quarantena è inutile.
Modificare regole e comportamenti rapidamente, mano a mano che la scienza acquisisce nuove certezze sul virus. È la strada da percorrere?
Esattamente. È la strategia, per altro, che stiamo adottando per la terza dose di vaccino. Al momento non ci sono dati scientifici solidi per deciderne la somministrazione generalizzata. Quello che sta succedendo in Israele, dove si è osservato un aumento dei casi di malattia severa associato al calo degli anticorpi dopo 4 mesi dalla somministrazione di Pfizer, non si è invece verificato negli Stati Uniti. Il motivo è legato al fatto che i criteri con cui si indica la malattia severa in Israele non sono gli stessi adottati dal Center of disease control americano. La verità è che il calo di protezione effettivamente riscontrato per Pfizer dice sì qualcosa degli anticorpi ma non delle cellule della memoria, pronte a fabbricarne di nuovi nel caso di infezione. Senza contare che quello stesso calo non viene riscontrato con AstraZeneca. Sul punto, molto complesso, servono insomma ulteriori studi e approfondimenti. Gli stessi dati, in compenso, ci dicono che nei soggetti più fragili – trapiantati, pazienti che assumono farmaci che inibiscono gli anticorpi e anziani over 80 – la terza dose è necessaria. Ecco allora perché è giusto procedere con le somministrazioni su queste persone per ora, come sta facendo l’Italia. Tra due mesi avremo nuove conoscenze e potrebbe essere che si debba estendere la terza dose a chi ha più di 65 anni. Senza paura di cambiare le regole, e soprattutto senza paura del parapiglia che si scatena tutte le volte che lo facciamo: vanno cambiate in base alle nuove evidenze che via via abbiamo, e vanno cambiate in fretta.
Il vaccino resta l’unica via per uscire dalla pandemia? A che punto sono gli studi su altri farmaci, come per esempio gli antivirali per bocca?
Vaccinarsi è l’unico modo per essere davvero protetti, ce lo insegna la storia delle malattie infettive. Che o scompaiono da sole, o vanno eradicate con i vaccini. Anche gli studi sui farmaci antivirali e sugli anticorpi monoclonali, tuttavia, si moltiplicano da ogni parte del mondo e in alcuni casi sono in fase avanzata. Molnupiravir, per fare un esempio, è stato studiato negli Stati Uniti in North Carolina in più di 200 persone: chi lo assume per bocca ha un’impressionante riduzione della carica virale al giorno 3, e al giorno 5 nessuno dei partecipanti che ha ricevuto Molnupiravir presentava più virus nelle sue vie respiratorie. Il farmaco è ben tollerato e gli eventi avversi sono assolutamente modesti. Lo studio dimostra l’importanza di agire precocemente nei confronti del virus. Molnupiravir in un altro studio riduce anche la capacità del virus di replicarsi, per lo meno negli animali, e questa è stata la ragione che ha spinto i ricercatori a provarlo nell’uomo.
Obbligo vaccinale o Green pass professore? La politica, nel dibattito degli ultimi giorni, ha messo spesso i due strumenti in contrasto.
Io non capisco la ragione di tanta esitazione sull’obbligo: i nostri bambini fanno 10 vaccinazioni obbligatorie da anni e senza problemi, il coronavirus è esattamente come l’epatite o il morbillo. In ogni caso ho condiviso appieno la decisione di estendere il Green pass: è uno strumento fondamentale per tutelare la nostra salute e quella degli altri. Ci si vaccina, d’altronde, soprattutto per gli altri: senza vaccino si rischia di dover essere ricoverati in rianimazione, e se le rianimazioni non hanno più posti, non si può più curare chi ne ha bisogno per qualsiasi altra ragione che non sia il Covid. È così semplice: chi non si vaccina ammala e fa morire gli altri. Anche quelli vaccinati, visto che i vaccini (nessun vaccino) protegge al 100%.
Ragioni che ai No-vax non bastano...
Anche qui è semplice: abbiamo ormai miliardi di persone vaccinate. Mai un vaccino è stato somministrato su così tante persone e mai un vaccino è stato più sicuro di questo. Dal momento in cui si viene al mondo d’altronde, o si mette al mondo un figlio, si accetta il rischio che possa accaderci qualcosa. Quel rischio è infinitamente più alto di quello che si verifichino complicazioni da vaccino.
Cosa l’ha spiazzata di più nel corso di questi quasi due anni di pandemia? Cosa, come uomo di scienza proprio non si aspettava?
Sono spiazzato oggi nel vedere tutti gli scienziati del mondo lavorare insieme, come mai è accaduto prima. Da ogni parte del pianeta, dall’Africa al Sudamerica, si lavora insieme per sconfiggere il Covid. E sono spiazzato, in positivo, perché ricordo ancora con grande rammarico l’articolo uscito sempre su Lancet il 24 gennaio del 2020, qualche settimana prima che fosse dichiarata l’emergenza pandemica. In quello studio cinese, dal titolo "Le manifestazioni cliniche dei pazienti infettati con il nuovo coronavirus", c’era già tutto: il meccanismo del contagio, i sintomi, la frequenza del ricovero in terapia intensiva, la maggiore esposizione dei pazienti più anziani. Quei dati erano disponibili per tutti e prima. In 48/72 ore avremmo potuto mettere in campo una strategia che ci avrebbe messo al riparo dall’irreparabile: mascherine, distanziamento. È probabile che pochi abbiano visto quello studio e chi l’ha letto non deve averlo tenuto in grande considerazione. Nessuno di quelli che dovevano sapere, quelli che avevano gli strumenti per capire e per intervenire. Insomma, gli scienziati si sono fatti trovare impreparati, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti.
Il riscatto è arrivato con un vaccino creato in meno di un anno...
Sì, grazie alla condivisione scientifica di cui dicevo. Pfizer e Moderna hanno iniziato a lavorare non appena è stata pubblicata la sequenza del Sars-Cov-2. Oggi sperimentano un vaccino che grazie a una nanoparticella sarà in grado di adattarsi a qualsiasi mutazione possibile della Spike: significa che in un anno al massimo avremo vaccini capaci di proteggerci da tutte le varianti del virus. Per l’epatite ne sono serviti 15, di anni, per ebola 25.
di Viviana Daloiso
testo e immagine tratti da Avvenire.it
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