Uno dei momenti culminanti del Convegno ‚Äî il cui tema era «Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo» ‚Äî è stato l'incontro di Benedetto XVI con i delegati. Il Papa ha ricordato che la risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia e insieme l'ingresso in un ordine decisamente diverso. Egli ha poi accennato all'Italia come a un Paese bisognoso della testimonianza cristiana, ma anche come un terreno assai favorevole per essa. Nella società secolarizzata rimane insoddisfatto un grande bisogno nascosto di speranza; ad esso si risponde con la strada maestra costituita dall'unità tra una fede amica dell'intelligenza e una vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa verso i poveri e i sofferenti.
del 04 novembre 2006
 
Uno dei momenti culminanti del Convegno ecclesiale nazionale di Verona — il cui tema era «Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo» — è stato l’incontro di Benedetto XVI con i delegati svoltosi la mattina di giovedì 19 ottobre nella sede della Fiera. Come è avvenuto anche nel pomeriggio durante la celebrazione eucaristica nello stadio «Bentegodi», nel quale erano presenti oltre 40.000 fedeli, il clima vissuto è stato di grande affetto nei confronti del Pontefice, il cui intervento è stato interrotto molte volte dagli applausi, espressione di approvazione e di comunione. E Papa Benedetto appariva lieto per la straordinaria accoglienza. Qui di seguito cercheremo di mettere in evidenza i passaggi principali del discorso pontificio rivolto al Convegno.
 
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La «riflessione» del Papa — così ha definito lui stesso il proprio discorso — si è aperta con il richiamo al Concilio Vaticano II, di cui il IV Convegno nazionale è una tappa di attuazione. Si tratta di un cammino «proteso all’evangelizzazione», compiuto «in stretta e costante unione con il Successore di Pietro», avviato da Paolo VI nel I Convegno svoltosi a Roma nel 1976 e proseguito con Giovanni Paolo II a Loreto nel 1985 e a Palermo nel 1995.
 
«Avete compiuto — ha detto Benedetto XVI — una scelta assai felice ponendo Gesù Cristo risorto al centro dell’attenzione del Convegno e di tutta la vita e la testimonianza della Chiesa in Italia. La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e sino alla fine dei tempi. Si tratta di un grande mistero, certamente, il mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza. Ma la cifra di questo mistero è l’amore, e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte».
 
La conseguenza è che «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20): «È stata cambiata così la mia identità essenziale — ha proseguito il Papa — e io continuo a esistere soltanto in questo cambiamento. […] “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata sul Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale. La nostra vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia e della speranza nel mondo», in concreto nella comunità nella quale viviamo.
 
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Il Papa ha poi accennato all’Italia come a un Paese «profondamente bisognoso» della testimonianza cristiana. In esso infatti è presente la cultura predominante in Occidente, caratterizzata dall’autosufficienza e dominata dall’illuminismo e dal laicismo, per i quali «sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare». In tal modo Dio viene escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, tanto che sembra diventato ad esse superfluo ed estraneo. Anche l’essere umano viene considerato un semplice prodotto della natura, quindi non più libero, «suscettibile di essere trattato come ogni altro animale». L’etica, poi, «viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso». Come si vede, questo tipo di cultura si pone agli antipodi non solo del cristianesimo, ma, in generale, delle tradizioni religiose e morali dell’umanità. «Perciò questa cultura è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza».
 
L’Italia però costituisce nello stesso tempo un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. «La Chiesa, infatti, — ha affermato Benedetto XVI — qui [in Italia] è una realtà molto viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti, mentre è in atto un grande sforzo di evangelizzazione e catechesi, rivolto in particolare alle nuove generazioni, ma ormai sempre più anche alle famiglie. È inoltre sentita con crescente chiarezza l’insufficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’etica troppo individualista: in concreto, si avverte la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà. Questa sensazione, che è diffusa nel popolo italiano, viene formulata espressamente e con forza da parte di molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede».
 
Quest’ultima espressione del Pontefice allude ai cosiddetti teo-con o atei devoti, credenti non praticanti o non credenti i quali ritengono che vadano salvaguardate le radici cristiane della società italiana, pur non appartenendo essi alla comunità ecclesiale. In tale affermazione di Benedetto XVI, com’è chiaro, non c’è alcuna implicazione, nemmeno indiretta, di carattere politico, né la riduzione del cristianesimo a semplice religione civile, ma soltanto la preoccupazione del pastore che non può non rallegrarsi se al di fuori della Chiesa nascono posizioni comuni a quelle della tradizione cristiana, per il bene delle persone. Ciò non esclude, naturalmente, che, pur con la necessaria attenzione alle sempre possibili strumentalizzazioni, i cristiani debbano essere sempre pronti al dialogo e al confronto anche con chi non condivide le loro posizioni culturali, come, ad esempio, illuministi e laicisti. I cristiani infatti devono essere sempre pronti a dare risposta a chiunque domandi loro ragione della propria speranza (cfr 1 Pt 3,15).
 
«Il nostro atteggiamento — ha proseguito il Papa — non dovrà mai essere, pertanto, quello di un rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia».
 
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Come adempiere un simile compito? Secondo Benedetto XVI, nella testimonianza dei cristiani deve «emergere soprattutto quel grande “sì” che, in Gesù Cristo, Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo». In proposito, afferma san Paolo nella Lettera ai Filippesi (4,8), «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri». «I discepoli di Cristo — commenta il Papa — riconoscono pertanto e accolgono volentieri gli autentici valori della cultura del nostro tempo, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la democrazia. Non ignorano e non sottovalutano però quella pericolosa fragilità della natura umana che è una minaccia per il cammino dell’uomo in ogni contesto storico; in particolare, non trascurano le tensioni interiori e le contraddizioni della nostra epoca. Perciò l’opera di evangelizzazione non è mai un semplice adattarsi alle culture, ma è sempre una purificazione, un taglio coraggioso che diviene maturazione e risanamento».
 
Il Papa ha poi ricordato che all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo. La fecondità di tale incontro si manifesta oggi anche «in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo […] suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore».
 
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«La persona umana — ha proseguito Benedetto XVI — non è, d’altra parte, soltanto ragione e intelligenza. Porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta. Perciò si interroga e spesso si smarrisce di fronte alle durezze della vita, al male che esiste nel mondo e che appare tanto forte e, al contempo, radicalmente privo di senso. In particolare nella nostra epoca, nonostante tutti i progressi compiuti, il male non è affatto vinto; anzi il suo potere sembra rafforzarsi, e vengono presto smascherati tutti i tentativi di nasconderlo […]. Qui, molto più di ogni ragionamento umano, ci soccorre la novità sconvolgente della rivelazione biblica: il Creatore del cielo e della terra, l’unico Dio che è la sorgente di ogni essere ama personalmente l’uomo, lo ama appassionatamente e vuole essere a sua volta amato da lui. Dà vita perciò a una storia d’amore con Israele […]. In Gesù Cristo un tale atteggiamento raggiunge la sua forma estrema, inaudita e drammatica: in lui infatti Dio si fa uno di noi, nostro fratello in umanità, e addirittura sacrifica la sua vita per noi».
 
Come sappiamo, proprio perché ci ama veramente, Dio rispetta la nostra libertà. Al potere del male e del peccato non oppone un potere più grande, ma «preferisce porre il limite della sua pazienza e della sua misericordia, quel limite che è, in concreto, la sofferenza del Figlio di Dio. Così anche la nostra sofferenza è trasformata dal di dentro, è introdotta nella dimensione dell’amore e racchiude una promessa di salvezza». A questo punto il Pontefice ha rivolto «un pensiero di speciale affetto alle membra sofferenti del corpo del Signore: esse, in Italia come ovunque nel mondo, completano quello che manca ai patimenti di Cristo nella propria carne (cfr Col 1,24) e contribuiscono così nella maniera più efficace alla comune salvezza. […] Sappiamo bene che questa scelta della fede e della sequela di Cristo non è mai facile: è sempre, invece, contrastata e controversa. La Chiesa rimane quindi “segno di contraddizione”, sulle orme del suo Maestro (cfr Lc 2,34), anche nel nostro tempo. Ma non per questo ci perdiamo d’animo. […] La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l’evangelizzazione».
 
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Per la trasmissione della fede una questione decisiva è quella dell’educazione della persona. «Occorre preoccuparsi — ha sottolineato il Papa — della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Soltanto in tal modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali». Egli ha posto in evidenza il coraggio delle decisioni definitive, «che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza». Da tale atteggiamento deriva il «no» a «forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà. In verità, questi “no” — ha detto Benedetto XVI — sono piuttosto dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio». Ha quindi manifestato il suo apprezzamento per il lavoro pastorale nei confronti delle giovani generazioni e delle famiglie, come anche la sua sollecitudine per il problema irrisolto del pieno riconoscimento della funzione della scuola cattolica, con tutte le conseguenze pratiche che esso comporta.
 
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Esaminando le testimonianze di carità, Benedetto XVI ha affermato che «l’autenticità della nostra adesione a Cristo si verifica specialmente nell’amore e nella sollecitudine concreta per i più deboli e i più poveri, per chi si trova in maggior pericolo e in più grave difficoltà. La Chiesa in Italia ha una grande tradizione di vicinanza, aiuto e solidarietà verso i bisognosi, gli ammalati, gli emarginati, che trova la sua espressione più alta in una serie meravigliosa di “Santi della carità”. Questa tradizione continua anche oggi e si fa carico delle molte forme di nuove povertà, morali e materiali, attraverso la Caritas, il volontariato sociale, l’opera spesso nascosta di tante parrocchie, comunità religiose, associazioni e gruppi, singole persone mosse dall’amore di Cristo e dei fratelli. La Chiesa in Italia, inoltre, dà prova di una straordinaria solidarietà verso le sterminate moltitudini dei poveri della terra. È quindi quanto mai importante che tutte queste testimonianze di carità conservino sempre alto e luminoso il loro profilo specifico, nutrendosi di umiltà e di fiducia nel Signore, mantenendosi libere da suggestioni ideologiche e da simpatie partitiche, e soprattutto misurando il proprio sguardo sullo sguardo di Cristo».
 
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Circa i temi connessi alla cittadinanza, il Pontefice ha messo in rilievo che «sui rapporti tra religione e politica Gesù Cristo ha portato una novità sostanziale, che ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più libero, attraverso la distinzione e l’autonomia reciproca tra lo Stato e la Chiesa, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22,21). La stessa libertà religiosa, che avvertiamo come un valore universale, particolarmente necessario nel mondo di oggi, ha qui la sua radice storica. La Chiesa, dunque, non è e non intende essere un agente politico. Nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre il suo contributo specifico. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e la aiuta ad essere meglio se stessa: con la sua dottrina sociale pertanto, argomentata a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano, la Chiesa contribuisce a far sì che ciò che è giusto possa essere efficacemente riconosciuto e poi anche realizzato. […] Il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza, al quale i laici cristiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo».
 
Infine, oltre allo straordinario impegno necessario per far fronte alle guerre e al terrorismo, alla fame e alla sete, e ad alcune terribili epidemie, i cristiani sono chiamati a contrastare «il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e princìpi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano, in particolare riguardo alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell’ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo sociale».
 
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È apparso significativo, e non semplicemente rituale, il richiamo che Benedetto XVI ha fatto, all’inizio del suo discorso, al Concilio Vaticano II, ponendo il Convegno di Verona in continuità con i tre Convegni precedenti e leggendolo come ulteriore tappa dell’attuazione conciliare in Italia. In un tempo nel quale, anche se ai margini della comunità ecclesiale, riemergono spinte a mettere progressivamente da parte molte delle indicazioni approvate dalle assise conciliari, assume un particolare rilievo una tale riaffermazione da parte del Papa, che mette in tal modo la sordina a eventuali derive anticonciliari e richiama la giusta chiave di lettura e applicazione del Vaticano II.
 
In conclusione, la riflessione del Pontefice è stata di alto profilo religioso; egli esorta e rianima la comunità ecclesiale italiana a testimoniare la speranza nella quale far «emergere soprattutto quel grande “sì” che, in Gesù Cristo, Dio ha detto all’uomo e alla sua vita». Nella società secolarizzata infatti «rimane insoddisfatto una grande bisogno nascosto di speranza». Agli uomini e alle donne del nostro tempo assetati di speranza va offerta la testimonianza dei cristiani e l’annuncio della Buona Notizia di Gesù. L’opera di evangelizzazione perciò non è un semplice adattamento alla cultura dominante, ma è sempre una sua purificazione e un suo risanamento, conseguenza dell’impatto del Vangelo con le persone di oggi, dell’incontro di ciascuno con Gesù. Strada maestra rimane l’unità tra una fede amica dell’intelligenza e una vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa verso i poveri e i sofferenti, com’è stato sempre nella storia della Chiesa. In tal modo l’Italia eviterà il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della civiltà occidentale.
 
Benedetto XVI ha anche riconfermato una posizione da tempo consolidata nel magistero pontificio, ricordando che il compito di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società appartiene non alla Chiesa in quanto tale, ma ai cristiani laici, i quali «operano come cittadini sotto la propria responsabilità». È una linea di condotta unanimemente condivisa da tutti i partecipanti al Convegno di Verona.
 
 
© La Civiltà Cattolica 2006 IV 211-218        quaderno 3753
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