Ribellatevi a chi vi scoraggia da Giovani per i Giovani

Cercano di spargere attorno a sé la loro mediocrità. Non avendo sogni, e forse non avendone mai avuti, cercano con ogni loro forza di annichilire i sogni altrui. Forse invidiano i nostri sogni. Forse, sapendosi mediocri, temono di vedersi soffiare il posto da chi vale di più.

Ribellatevi a chi vi scoraggia da Giovani per i Giovani

da GxG Magazine

del 07 ottobre 2009

Carissimi Giovani, 

 

Me lo ricordo bene, quel primo giorno di lavoro ad Avvenire. Milano doveva essere una schifezza, ai primi  di febbraio del 1985: i cumuli grigiastri ricordo del nevone - epica bufera che mise in ginocchio mezza Italia,  chiedete ai vostri vecchi - e aria pesante che pizzicava in gola a chi veniva dalla provincia come me. Ma chi  se ne fregava. Pensate di chiudere gli occhi e addormentarvi, sapendo che quello che seguirà sarà il più bel  sogno della vostra vita: ecco, io mi sentivo così, quindi Milano era una delizia. 

 

A metà mattina in redazione non c’è quasi nessuno. Mi accolgono due colleghi nello stanzone che raggruppa  interni ed economia. Mi squadrano con occhio annoiato. «Sei il nuovo? E da dove vieni?». «Da Padova!»  esclamo, pensando alla nobiltà dell’antica città universitaria, alla Serenissima, ai “padovani gran dottori”.  Ingenuo. Avrei imparato a mie spese che agli occhi di certi milanesi pigri e pieni di sé - ce ne sono, purtroppo;  possiamo chiamarli baùscia, con affetto - niente è pari a Milàn e tutto è insignificante al suo cospetto. «E  che cosa facevi prima?». Perbacco, bella domanda. Piazzata lì apposta per costringere chi non ha esperienza  ad ammetterlo. Ma io no. Io avevo vinto anche un concorso statale: «Facevo il professore al liceo linguistico»  replico sicuro. E lui «E hai lasciato la tua scuola per fare questo mestiere di m…?». 

 

Bell’impatto, vero? Ho poi scoperto che quei due colleghi erano, ahi loro, dei posapiano di irrisoria professionalità.  Succede in tutte le aziende. Perbacco - mi son ripetuto nel quarto di secolo successivo - finché resterò  qui, ogni volta che sulla porta si affaccerà una matricola la accoglierò con il sorriso più largo e contagioso  del mio repertorio, gli offrirò da bere, lo proteggerò dai disfattisti; e se me lo chiederà, lo inviterò a inseguire  con tenacia e determinazione i suoi sogni. 

 

A nessun altro doveva capitare quello che era capitato a me. Non ne ricavai gran danno, ma un certo dispiacere  sì. Oggi ad Avvenire sono sicuro che non esistono disfattisti di quella risma, abbiamo bonificato l’ambiente.  Ma di giornalisti simili, in giro, ce ne sono un sacco. Molti di loro, per qualche insondabile mistero,  insegnano giornalismo. Mi capita spesso di incontrare ventenni aspiranti giornalisti che, con occhio triste,  confidano: studio a XYZ, e il suo collega che insegna giornalismo ci dice e ripete che è impossibile diventare  giornalisti, che è un mestiere di m…, tanti sacrifici e soddisfazioni zero, che è meglio lasciar perdere. 

 

Razza di farabutti! Cercano di spargere attorno a sé la loro mediocrità. Non avendo sogni, e forse non avendone  mai avuti, cercano con ogni loro forza di annichilire i sogni altrui. Forse invidiano i nostri sogni. Forse,  sapendosi mediocri, temono di vedersi soffiare il posto da chi vale di più. A questi studenti rispondo quasi  gridando: non ascoltare quei loschi individui! Se hai un sogno, hai il diritto e il dovere di inseguirlo con tutte  le tue forze e nessuno, assolutamente nessuno può né deve bloccarlo. C’è un disperato bisogno di buoni  giornalisti, almeno per pareggiare i conti con i ciarlatani e i pennivendoli infiltrati. Poi potrà anche accadere  che non ce la farai, e scoprirai un altro sogno, un’altra strada. Ma prima puoi e devi. I sogni innanzi tutto. 

 

Qualcuno si spaventa per la mia veemenza. Ha ragione. Non può conoscere la mia storia. A lungo io ho  avuto paura dei miei sogni, negandomeli. Oggi posso dire che scrivere è l’unica cosa decente che sappia fare.  Che fortuna averne fatto il mio mestiere! Alle scuole medie inferiori la mia giovanissima prof di Lettere - un  giorno anch’io, per un solo indimenticabile anno, sarei stato un giovanissimo prof di Lettere - mi ripeteva: tu farai il giornalista, scrivi così bene, in modo così chiaro, asciutto ed appropriato, che ti vedo giornalista. Ebbene,  non mi bastava. Lo so che sarebbe dovuto bastarmi, ma non mi bastava perché riponevo una eccezionale  sfiducia in me stesso. Non mi vedevo da nessuna parte, chissà perché. Al liceo classico becco 5 nella prima prova  scritta. Uno shock, dal 9 al 5. Stupido non ero, però, o forse avevo un forte senso di sopravvivenza. Imparai a  scrivere delle schifezze impersonali che però mi garantivano il 6. Fu la mia fortuna. Salvai la pelle e per reazione,  per rabbia, per ribellione il mio sogno riaffiorò quasi con violenza, costringendomi a scrivere ovunque, sul diario  sui quaderni nelle lettere agli amici nelle canzoni nelle poesie, un diluvio.

 

No, ribellatevi a chi vi scoraggia. Ribellatevi a chi taglia le ali ai sogni. Sognate e volate, invece. Se possibile insieme,  facendovi coraggio a vicenda. Cercatevi dei maestri bravi e buoni, che vi diano fiducia e vi insegnino tutto quello  che sanno. Sono rari e difficile da scovare, perché non si pavoneggiano e se ne stanno tranquilli. Dovrete stanarli.  Ma ci sono. 

 

Uno di questi purtroppo non c’è più. È morto il 31 marzo 2004. Era un salesiano, si chiamava Vincenzo Savio ed  era vescovo di Belluno-Feltre. Eravamo nati lo stesso giorno, lui dodici anni prima di me. Ci eravamo conosciuti a  Livorno, lui vescovo ausiliare, io inviato speciale. Mi aveva conquistato il suo cuore così spazioso che anche un tipo  ingombrante come me ci trovava posto. Il suo regalo più grande fu uno straordinario gesto di fiducia. Gravemente  ammalato, prossimo alla morte, mi chiese di scrivere un libro con la storia del suo ultimo anno, in cui spiegare che  è possibile sorridere e trasmettere allegria anche mentre ci si avvia alla morte. Ripeteva spesso una frase, che ho  messo all’inizio del libro: «Ho avuto una sola paura: di chiunque volesse bloccare i miei sogni». (Quel libro, il mio  libro più difficile, si intitola Il Vescovo e Margherita ed è pubblicato da Àncora; i miei diritti d’autore vanno alla  causa di beatificazione di papa Luciani, avviata da don Vincenzo). 

 

Tornano e ritornano i sogni. Perfino sulle labbra del Papa. La sera del primo settembre 2007, sulla spianata di  Montorso, durante la veglia all’Agorà dei giovani italiani, Benedetto XVI ha parlato di sogni: «Lasciate che questa  sera io vi ripeta: ciascuno di voi se resta unito a Cristo, può compiere grandi cose. Ecco perché, cari amici, non dovete  aver paura di sognare ad occhi aperti grandi progetti di bene e non dovete lasciarvi scoraggiare dalle difficoltà».  Se ve lo dico io, potete anche non prendermi sul serio. Ma ve lo dice il Papa. 

 

 

 

 

Umberto Folena è editorialista del  quotidiano Avvenire, per il quale  lavora dal 1985 e per 16 anni è stato  inviato speciale seguendo di tutto,  dai viaggi del Papa ai Giochi Olimpici.  Prima ha insegnato ed è stato  vicepresidente nazionale per il Settore  giovani dell’Azione cattolica  italiana. Ha scritto molti libri, perché  gliel’hanno chiesto. Il prossimo  esce tra poche settimane, è edito da  Àncora e s’intitola L’alfabeto delle  paure. Se le conosci le superi.   

 

Umberto Folena

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