Il parroco di Brancaccio, di cui il 25 Maggio ricorrerà l'anniversario della beatificazione, è la bussola che indica una posizione certa e la meta da raggiungere: prete, semplicemente prete...
del 22 maggio 2017
Il parroco di Brancaccio, di cui il 25 Maggio ricorrerà l’anniversario della beatificazione, è la bussola che indica una posizione certa e la meta da raggiungere: prete, semplicemente prete...
«Come parlare di Cristo? Dobbiamo cercare di presentare da innamorati la figura di Cristo, per sperare che ci stiano a sentire».
Pino Puglisi non è morto. È vivo e lotta in mezzo in noi, si potrebbe dire mutuando un linguaggio d’altri tempi. Le sue parole sono risposta definitiva a quanti, specie in questi giorni, in particolare nella nostra Calabria, vanno domandandosi una volta ancora da che parte stia la Chiesa nell’eterna lotta contro il male, prendendo spunto dalle cronache tristi che partono dai fatti di Isola Capo Rizzuto e raccontano di un mondo in cui nulla ha colore, niente è bianco o nero, ma tutto è solo un’enorme, indistinta macchia grigia.
Il parroco di Brancaccio, di cui il 25 Maggio ricorrerà l’anniversario della beatificazione, è la bussola che indica una posizione certa e la meta da raggiungere: prete, semplicemente prete. Dunque, un uomo innamorato di Dio e della propria missione. Non un eroe, nemmeno un’icona antimafia: una persona normale, che di speciale aveva quel che spesso manca a molti e che per questo lo rendeva differente: coscienza, fede, coerenza. All’indomani del riconoscimento del suo martirio in odio alla fede per mano mafiosa, papa Francesco, all’Angelus, disse: «Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto».
Per questo la mafia lo ha ucciso, per questo dopo di lui nessun equivoco è possibile, specialmente nel campo in cui si combatte una lotta alla mafia sempre più spesso ridotta, almeno in apparenza, a reiterazione di rituali pseudoreligiosi intrisi di gesti e simboli privi di ogni reale significato. Ma nemmeno dubbi restano – soprattutto – nel campo della distinzione tra “padrini” e “parrini” e sulla via da seguire, che per la Chiesa deve essere una ed una sola, quella di sempre: il Vangelo. Quando i sicari mandati dai Graviano lo ammazzano sotto casa, la sera del 15 settembre 1993 (era il suo cinquantaseiesimo compleanno), sul selciato cade un uomo mite, umile, disinteressato, innamorato di Cristo e del Vangelo. Uno che non confida sulle sue forze e capacità, ma solo in Cristo che propone come l’unica direzione di vita ai giovani, in parrocchia, nelle attività liturgiche, nei campi scuola, negli incontri vocazionali, nei cenacoli evangelici, nelle riunioni di impegno civile e sociale. Insomma, un missionario in uscita, senza chiusure, neppure verso la mafia e la mafiosità, ma soprattutto verso le persone deviate dalla zizzania criminale.
Vangelo nel cuore e in mano, Puglisi operò per riportarne la gioia e la forza al centro del mondo, cominciando dal suo piccolo, povero mondo. È il motivo per cui era e resta espressione bella di una Chiesa, che nello spirito della Evangelii gaudium sa immedesimarsi nei «sentimenti di Cristo, dell’umiltà, del disinteresse e delle beatitudini, «sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente, nei poveri», non è narcisistica, né egoista, né autoreferenziale, ma umile e disinteressata. Coerente con lo stile della sua non lunga esistenza, l’ultima espressione sul suo volto fu il sorriso, cornice, anche nella tragica circostanza, della sua umiltà e della sua mitezza evangelica. Il sorriso di cui oggi siamo sempre meno capaci. Il sorriso d’un prete che ci manca. Perché non c’è più, perché non c’è ancora.
Mons. Vincenzo Bertolone
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