Ricordare

Le cose si scoprono veramente “attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla ‚Äì ora soltanto ‚Äì per la prima volta”. Nel memoriale il fatto ricordato è reso presente, e i suoi frutti resi disponibili adesso non come filtro, ma come esperienza viva, pulsante. Allora il tempo si ricapitola, si addensa in un punto, nell'attimo presente che vive degli echi del passato e delle tensioni verso il futuro, restando però se stesso. Cioè vita.

Ricordare

da Quaderni Cannibali

del 16 febbraio 2011

 

 

           Ci sono scrittori grandi, indiscutibilmente grandi. Ci sono dei poeti grandi, di fronte alla grandezza dei quali si prova però un certo disagio perché la loro posizione davanti alla vita non è una posizione che ci soddisfa. Quindi con gratitudine riconosciamo la loro grandezza, ma nello stesso tempo, con rispetto, ce ne distacchiamo perché non troviamo una vicinanza, una solidarietà, rispetto alla nostra visione del mondo. E quindi li abbandoniamo.

          Ma ripeto: non perché siano grandi o perché, al contrario non lo siano, ma perché sentiamo che con loro non si stabilisce un ponte vitale. O meglio: avvertiamo un ponte, ma sentiamo che la sua arcata non corrisponde al desiderio più profondo che abbiamo, al desiderio più profondo che la nostra vita esprime. C’è chi si accontenta, si capisce. Ma a un certo punto noi torniamo ai poeti che veramente ci portano oltre noi stessi e non quelli che ci scoprono lì dove siamo.

          Uno di questi poeti per me è Pavese. Pavese ha scritto ne Il mestiere di vivere che le cose si scoprono veramente “attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”. Questa frase cade sulla mia testa come una mannaia.

          Non c’è niente da fare. Devo prenderla seriamente in considerazione. Le cose, gli oggetti, vanno caricandosi di significati simbolici. Ha ragione. E tuttavia in questi significati le cose sembrano smarrirsi. E in esse si perdono. Le cose sono ridotte a simbolo di un complesso inconscio, di angosce, ricordi, desideri, riferimenti culturali. Mi sussurra Pavese: non c’è da riconoscere la ricchezza del reale, ma della complessità della mia coscienza. Così in un testo di poco successivo a proposito di certe poesie non ancora scritte Pavese finisce per decidere che nella narrazione “i fatti avverranno – se avverranno – non perché così vuole la realtà, ma perché così decide l’intelligenza”. L’immagine reale cede il passo al simbolo, il mistero del reale al mito. Il suicidio di Pavese è “annunciato” dal suo progressivo abbandono della fiducia nel reale.

           Il ricordo, quello vero, non è una culla né una tomba. Se il ricordo viene dal solo passato e immerge il presente nei suoi labirinti fino a fagocitarlo, la novità diventa impossibile. La vita si ammorba. Il desiderio è spento. E infatti, prosegue Pavese, “lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità”. Conoscere, amare, vivere significa, in fin dei conti, interpretare fantasmi.

           Pavese, da scrittore grande qual è, coglie nel reale una trama che si risveglia nella coscienza dell’uomo e la descrive e la interpreta alla luce di un passato irraggiungibile ma sempre attivo, quello dell’infanzia. Ha ragione a dichiarare l’importanza a livello simbolico delle scoperte dell’infanzia, mitiche ed elementari. Tuttavia ecco, a nostro avviso, il vero problema: se Pavese ben comprende quale tesoro sia l’infanzia, non altrettanto riesce però a comprenderne la portata della sua attualità. Il passo — decisivo — che egli non riesce a compiere è quello di riconoscere nell’infanzia non solamente una valenza di passato, ma anche una potenza di futuro. Pavese sembra incapace di riconoscere che la condizione aurorale dell’infanzia non è solamente terra a cui far ritorno per capire la realtà e luogo in cui trovare rifugio, ma condizione stessa dell’esperienza del mistero del reale, possibilità di una conoscenza intesa come “prima volta” e non sempre e soltanto “seconda”, per usare le sue espressioni.

          E invece Pavese invita a “tapparsi i sensi davanti alla realtà” e di accontentarsi di quella che riaffiora dalla coscienza chiusa in se stessa.

           Non ho simpatia per il ricordare così com’è inteso normalmente. Il ricordo che per me ha senso è la “memoria viva”, quella ad esempio, nel linguaggio biblico-liturgico è definito come “memoriale” e non “ricordo” di ciò che fu. Se una cosa fu e non è più tanto vale dimenticarla. Anzi non ce n’è bisogno perché è già svanita. Noi ricordiamo le cose che vivono in un modo o in un altro. L’importante è che questa loro vita non appanni la vita, il futuro, il progetto che adesso faccio della mia vita, ma li vivifichi con una sovrabbondanza di senso. Il memoriale, appunto, significa che un evento del passato diventa attivo adesso. Nel memoriale il fatto ricordato è reso presente, e i suoi frutti resi disponibili adesso non come filtro, ma come esperienza viva, pulsante. Allora il tempo si ricapitola, si addensa in un punto, nell’attimo presente che vive degli echi del passato e delle tensioni verso il futuro, restando però se stesso. Cioè vita. E allora ricordare non è la solita attività triste e nostalgica, ma la spinta energica che viene da dietro. A volte anche all’improvviso.

 

 

 

 

Antonio Spadaro

http://www.bombacarta.com

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