Oggi, il termine “Cristo re” non piace molto all’opinione pubblica, sia perché evoca tempi di monarchia da noi superati, sia perché richiama l’immagine dell’uomo-suddito. Oggi, specialmente, non si vuole sentire parlare di obbedienza, di sottomissione, di dipendenza. Siamo persuasi che niente e nessuno può intralciare le nostre scelte. Anche nel campo religioso, c’è una tendenza assai diffusa a fare di Dio il buon compagno, l’amico che dà sempre ragione, il padre che perdona ogni nostro comportamento, confondendo misericordia con relativismo, perdono con approvazione, comprensione con giustificazione. Non è raro sentire che di fronte alla parola di Dio, occorre “ragionare”, nel tentativo di ridurlo alle nostre dimensioni, adeguarlo alle nostre abitudini, come se fosse Dio a sottomettersi ai nostri progetti e non fosse invece urgente il contrario.
1. Questa festa di Cristo re, quando fu istituita da Pio XI, nel 1925, in pieno regime fascista, suscitò stupore e qualche obiezione: era proprio quello il momento di chiamare re il Cristo, mentre le vecchie monarchie scomparivano, e apparivano le nuove dittature (fascismo, nazismo, stalinismo)? Forse la Chiesa voleva impadronirsi del potere politico? Per più di 160 volte nel Nuovo Testamento leggiamo la parola “Regno”, e di questo Regno la festa odierna ci presenta l’esito terminale. Il Regno di Dio non è stato inaugurato con una solenne parata militare, ma con l’arresto del suo re; non è stato presentato al mondo con una solenne cerimonia ma con una croce e un crocifisso. Cristo ha sempre rifiutato di essere fatto re. Si è dichiarato re, quando questa parola non correva nessuno rischio di essere fraintesa: Gesù si trovava solo, prigioniero, legato davanti a Pilato: “Il mio Regno non è di questo mondo … I re della terra comandano … Chi vuole essere il primo diventi l’ultimo”. La parodia del processo è contenuta nella frase di Pilato: “Ecco il vostro re!”. Cristo è re perché è il solo che ci ami pienamente; è il solo che darebbe anche oggi la sua vita per me, per noi; è il solo che si fa mangiare da quanti cercano un senso alla loro vita. Cristo è re perché manifesta la sua potenza non tanto creando una volta, ma perdonando settanta volte sette!
2. Se c’è qualcosa di chiaro in questo racconto è il fatto che Gesù è stato giudicato e mandato a morte dal prefetto della Giudea Ponzio Pilato, secondo le leggi dell’Impero romano. Solo il prefetto romano poteva emettere una sentenza di morte in croce. Inoltre si sa che la croce era un castigo utilizzato dai romani in Palestina tra il 63 a.C. ed il 66 d.C. solo contro quelli che si ribellavano a Roma (H. W. Kuhn, X. Alegre). Tutto ciò vuole dire che Gesù è stato condannato a morte per un motivo politico. Gesù è stato condannato a morte per il delitto di seditio, come un sovversivo contro il potere stabilito. Cosa che trova conferma se consideriamo che i due malfattori crocifissi con Gesù sono chiamati lestái, un termine utilizzato da Giuseppe Flavio per designare i ribelli politici. Tuttavia, per quello che raccontano i vangeli, Gesù non ha incoraggiato una rivolta politica e non ha mai parlato contro Roma. Perché allora la condanna a morte per un motivo politico? Questa domanda interessa direttamente il titolo di «re» posto sulla croce.
3. Come hanno spiegato bene gli esperti del diritto romano, i due pilastri fondamentali sui quali si fondava quel diritto erano: 1) la difesa inviolabile del “diritto di proprietà”; 2) la difesa del “potere dei potenti” (P. G. Stein, Seneca). Ebbene, questi due pilastri si collocano agli antipodi dello spirito e della lettera di quanto ha insegnato e vissuto Gesù. Probabilmente l’idea di papa Pio XI, quando nel 1925 istituì la festa di Cristo Re, era esaltare il suo potere e la sua gloria su tutti i poteri di questo mondo. Ma l’idea di Gesù era un’altra. Gesù voleva affermare che “un altro mondo è possibile”. Un mondo non basato sul potere e sul capitale, ma sull’etica dell’onestà, del rispetto, dell’uguaglianza di diritti e di garanzie per tutti gli uomini. In questo consiste la signoria di Cristo, che ha scioccato e continua a scioccare rispetto a tutte le signorie dell’«ordine presente».
4. Ogni autorità deve imitare quella del Cristo; il primato del papa è un primato di funzione, di servizio, di esemplarità. Nel cristianesimo non ci sono onori ma responsabilità, non presidenze ma servizi, non poltrone da coprire ma fratelli da ricoprire, non professionisti di carriera ma dilettanti di amore. Diceva Ignazio di Antiochia che, se primati ci devono essere, uno solo è accettabile: “il primato e la presidenza dell’amore”. Il titolo più bello con cui i papi abbiano firmato i loro documenti è “servus servorum Dei!”. Non andiamo, quindi, a caccia di onori; non aspettiamoci riconoscenza; non contiamo sul successo. Non dominare ma servire! Come cambierebbero le nostre famiglie, le nostre parrocchie, i nostri governi se coloro che vogliono essere i primi, si facessero i servitori e gli ultimi! Cristo ha trionfato attraverso il fallimento, il tradimento, la morte: “Regnavit a ligno Deus”. Non lanciamo anche noi la sfida: “Scendi dalla croce, finiscila di restare lì, immobile, inefficace, impotente”. Cristo, proprio restando in croce, rivela la sua infinita potenza di amore e di speranza. “Quando sarò sollevato, attirerò tutti a me”. Egli è sicuro di commuovere un giorno il meglio di noi, di metterci liberamente, affettuosamente, in ginocchio davanti a Lui e davanti ai fratelli, perché Cristo non vuole né sudditi né schiavi: “Non vi chiamo servi, ma amici”.
5. L’evangelista Luca presenta la regalità di Cristo in una scena tragica e grottesca insieme: la parodia sulla croce, tra due ladroni, la crocifissione, la scritta ironica … Quello che avviene è la sintesi tipologica dei rapporti fra Dio e l’uomo. C’è chi lo rifiuta, ieri come oggi, in mezzo al chiasso degli affari e della politica, dei successi e della telematica; la croce diventa insignificante o scandalosa. C’è chi lo accetta e lo riconosce, come il buon ladrone: quel brigante doveva essere rimasto colpito dalla infinita pazienza di Cristo; insultato fino all’agonia, tra le bestemmie di tanti, riusciva ancora a perdonare. Non poteva essere un semplice uomo! “Oggi sarai con me nel paradiso”. Ladro in vita, ladro in punto di morte! L’unico santo sicuro, non dimentichiamo, canonizzato direttamente da Cristo! Il ladrone proprio lui, è il fondatore della teologia negativa, il primo teorico del “Deus absconditus”, perché riconosce Dio non nelle manifestazioni gloriose ma nelle vesti di un condannato; riconosce il Cristo non nel momento del trionfale ingresso in Gerusalemme, ma sul calvario, abbandonato da tutti; nel buio dell’eclisse totale, il ladrone mostra di saper vedere, lo riconosce non nella “trasfigurazione” ma nella “figurazione”.
6. Oggi, il termine “Cristo re” non piace molto all’opinione pubblica, sia perché evoca tempi di monarchia da noi superati, sia perché richiama l’immagine dell’uomo-suddito. Oggi, specialmente, non si vuole sentire parlare di obbedienza, di sottomissione, di dipendenza. Siamo persuasi che niente e nessuno può intralciare le nostre scelte. Anche nel campo religioso, c’è una tendenza assai diffusa a fare di Dio il buon compagno, l’amico che dà sempre ragione, il padre che perdona ogni nostro comportamento, confondendo misericordia con relativismo, perdono con approvazione, comprensione con giustificazione. Non è raro sentire che di fronte alla parola di Dio, occorre “ragionare”, nel tentativo di ridurlo alle nostre dimensioni, adeguarlo alle nostre abitudini, come se fosse Dio a sottomettersi ai nostri progetti e non fosse invece urgente il contrario.
Buona vita!
* Gruppo biblico ebraico-cristiano
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