Ricostruiamo l'identità femminile di generazione in generazione

Ogni essere umano ‚Äì lo si sa ‚Äì inizia la sua vita “abitando” all'interno di un altro essere umano, una donna, così che i due corpi sperimentano insieme ‚Äì nei nove mesi, tanto dura la convivenza ‚Äì che la carne che ci costituisce non è soltanto soggetto di esperienza, ma principio, inizio di un corpo che viene alla vita, vita ospitata nella casa di un altro corpo.

Ricostruiamo l'identità femminile di generazione in generazione

da Quaderni Cannibali

del 09 marzo 2011

 

 

  

          Ripartiamo dalle “viscere”, come suggerisce Marìa Zambrano, ascoltiamo il linguaggio del corpo: può essere questo lo slogan di questo 8 marzo.

          Invece di riproporre valori astratti o rappresentazioni concettuali, là dove il corpo diventa erroneamente allegoria della mente, proviamo a seguirne i ritmi interni, la sua nascosta finalità, il suo carattere simbolico.

          Questo percorso, del resto, appare segnato da quel dato originario impresso da quell’inizio della vita costituito per i credenti dalla Creazione: il risveglio al mondo è stato infatti donato tramite la percezione plastica del corpo dei nostri due progenitori. Al di là del mito, una verità si rende qui subito evidente; la differenza tra maschile e femminile non appare soltanto attraverso la diversità anatomica, che ne disegna l’identità sessuale, ma il corpo diventa subito, come dire, il “vestito” dell’anima, la sua rivelazione profonda, la modalità originaria di affacciarsi al mondo e di intercettare la presenza di altri.

          Vale la pena chiedersi, al riguardo, per quale strano destino la materialità creaturale del corpo femminile abbia condotto alla perdita della sua dignità in modo, oggi, così scomposto e plateale, creando l’impressione che la necessaria rivoluzione culturale, che si fa urgente, più che rifarsi all’obbedienza ad una tavola eterea di norme e di valori, faccia affidamento all’esperienza e all’ascolto diretto delle parole, a cui il suo corpo rimanda.

          Si può provare, in tal senso, a comprendere come il dato biologico – l’essere donna - pur non esaurendo di per sé l’identità di tutta la persona, si costruisca anche sulla base di questo suo darsi immediato e naturale. Così che il corpo sessuato possa esibire una sua potenziale irradiazione simbolica che potrebbe davvero rappresentare il suo riscatto, oltre che costituire la base fondativa per un’etica delle relazioni umane.

          Si può al riguardo proporre un’analisi fenomenologica del corpo [E. Husserl, 1989], non affetta da precomprensioni intellettualistiche o teoriche, ma basata sulle forme vissute del suo manifestarsi con un linguaggio pre-logico, “naturalmente” esposto all’esperienza del suo distendersi dentro il mondo.

          Ogni essere umano – lo si sa – inizia la sua vita “abitando” all’interno di un altro essere umano, una donna, così che i due corpi sperimentano insieme – nei nove mesi, tanto dura la convivenza – che la carne che ci costituisce non è soltanto soggetto di esperienza, ma principio, inizio di un corpo che viene alla vita, vita ospitata nella casa di un altro corpo. Bisognerebbe essere capace di riudire in noi il rumore della nostra nascita, quando in principio si porta in sé la percezione dell’essere donati alla vita, in quel lampo dell’inizio con cui siamo venuti al mondo [H. Arendt, 1989].

          Allora la nostra carne non è il corpo opaco che ognuno trascina con sé dopo la nascita, corpo che ci accompagnerà per tutta l’esistenza, senza sorpresa, ma forse con rassegnazione, visto quei segni incancellabili che ci costituiscono e che nessuna correzione chirurgica elimina: noi siamo quegli occhi, quel volto, quello sguardo…

          Conviene dunque provare a seguire i tempi e i ritmi del corpo della donna, visto che è lei la nostra prima casa, corpo sempre mosso, in un movimento costante di sistole e diastole, vero simbolo universale che garantisce spazio comune ad una ragazza araba o cinese, ad un’adolescente australiana, a una studentessa italiana, ad una diciottenne indiana. Così da individuare alcuni tratti di questa storia comune, legata all’esperienza del “corpo vissuto”, là dove è possibile riscoprire la forza dell’identità, nella trama di una narrazione entro cui liberare parole autonome e vive.

          Si possono al riguardo scoprire tre aspetti, a cui la carne femminile rimanda: il primo può essere detto “corpo – flusso”, il secondo “corpo – abitazione” e il terzo “ corpo – mondo”. Si potrà anche vedere come queste tre modalità rimandino ad una loro traduzione nella vita sociale [P. Ricci Sindoni, 2008].

           Dopo l’infanzia, infatti, la donna è un corpo dal quale si vede fluire regolarmente e periodicamente “sangue di vita”. E’ un corpo – flusso che ha una regolazione di tempo ritmico, tempo mobile, alternante, mai fermo, luogo liquido che compresso nella materialità della carne si tramuta in tempi alterni e per un lungo periodo di vita in sangue, e, in momenti particolari, anche in latte.

          Entrambi stanno in relazione con la vita; vita che si annuncia e vita che si alimenta, si nutre. Anche nello spazio interiore restano tracce di questi fluidi. Intanto nella distensione del tempo che nelle sue alternanze, nei suoi ritmi più lenti, più rapidi si rende come visibile, con il suo alto valore simbolico. A misura che trascorre il tempo, infatti, le conseguenze di diventare corpo abitato – con la gestazione di un nuovo inizio, il figlio – si vanno facendo più intense: vedrà allora arrivare un momento nel quale il tempo compiuto apre un cammino perché il dentro – il bambino – si apra all’esterno, alla frontiera del mondo.

          Dopo la rottura e l’allontanamento necessari, il corpo femminile scopre che all’esterno è tanto capace di nutrire come all’interno, in uno spostamento che va dal ventre al petto: il liquido rosso si fa bianco, diventa latte che nutre il figlio, ormai vita autonoma, fuori di lei. Il latte, cibo liquido è relazione nutriente, unione tra due corpi, comunicazione materiale e psichica, comunione che potenzia sempre più l’ormai avvenuta separazione.

          Giunge poi il tempo in cui tutto questo cessa, il corpo femminile entra con il passare del tempo in un altro ritmo; diventa insomma corpo mondo: la fecondità fisica finisce, ma per annunciare un’altra tappa, un’altra maternità che si inserisce nella storia del tempo, dove tutto nasce ed è alimentato ad un altro livello. Questo spiega perché non è meno donna chi, per scelta o per condizioni personali non è abitata dalla vita e non allatta, intanto perché, comunque, in quanto donna è simbolicamente abitabile, ma perché il tempo della generazione e del nutrimento è aperto e traducibile nei tanti gesti delle relazioni interpersonali, quando queste si fanno profonde, come dire, incarnate. Per una generazione “secondo l’anima”, come direbbe Platone.

          Il corpo femminile è, in tal senso, uno speciale “contenitore”. Dopo l’incontro di intimità corporea di una coppia umana, la donna può diventare lo spazio entro cui la vita si autogenera in quella straordinaria parabola che si nutre di legame interdipendente: due esseri vivranno in perfetta comunione e in perfetta alterità. Nello spazio dilatato, affinché l’altro maturi e cresca nella sua vita autonoma, si apre –quando il tempo si compie- un sentiero che permette il cammino verso fuori.

Dal trauma della rottura e della separazione con l’altro essere vivente, la madre sa che la vita, una volta generata, può, deve essere conservata ma anche consegnata, perché ricerchi da sé la verità della sua manifestazione nel mondo. Il parto e la nascita diventano in tal senso la metafora più realistica dell’avventura umana sulla terra che comincia, cresce, si sviluppa a tutti i livelli: da quello individuale a quello collettivo, sociale e cosmico.

          Il “miracolo” dell’inizio, per dirla con Hannah Arendt, quello che apre il mondo all’accoglienza di ogni nuovo nato, si imprime così in ogni contesto vitale, diventa parto delle relazioni umane: la nascita di un’amicizia, di un amore porta il sigillo di questo incredibile evento; affidati al visibile (alle tante espressioni della nostra corporeità) percepiamo ogni giorno la rivelazione dell’invisibile, quale presenza nascosta e reale della vita che ricomincia, quando diventa ospitalità e dimora dell’altro dentro le tante voci del suo corpo, con cui la donna si apre al mondo. O meglio diventa metafora del mondo. Sono le sue viscere a impiantare un fondamento sicuro sulla terra, che di generazione in generazione ridice il bene dell’essere al mondo. Ma bisogna essere più precisi: noi non siamo nel mondo, come dice Heidegger e molta filosofia contemporanea che pensa la vita guardando ai concetti.

          Certo, con la nascita entriamo nel mondo, ma per diventare noi stessi mondo. Luogo cioè in cui far confluire le traiettorie del desiderio, le spinte della libertà, le aspirazioni al bene, la voglia di legami forti e caldi dentro quel nucleo di verità che è suggerito proprio dal linguaggio del corpo [G.P. Di Nicola, 1994]. Là dove il tempo ciclico, ordinato secondo i ritmi e i vuoti, momenti di fecondazione e attimi di sospensione chiede e pretende rispetto e custodia, invece che violenza e indifferenza. Un tempo che va accompagnato, perché si prepari e maturi alla luce di una intenzionalità che non può essere alterata per capriccio. Un tempo che ridica la disciplina dell’attesa, per dar tempo al tempo senza prevaricazioni e inutili scappatoie.

          Così che tutta la persona, nella sua triplice scansione di corpo, psiche e spirito, maturi dentro questo tempo, che già porta in sé i frutti maturi della propria identità.

          Proprio come accade nel corpo – abitazione, che nella paziente attesa che il tempo realizzi il compimento, la carne femminile si rivela anche come metafora sociale: le porte della casa – corpo non sono chiuse, se non per abilitare il figlio alla vita autonoma, che non diventa in seguito (o non lo dovrebbe mai diventare) una figura separata ed estranea, ma l’inizio simbolo di relazioni comunitarie segnate dalla reciprocità, dall’interdipendenza, dal rispetto, dalla compartecipazione.

          Si può facilmente immaginare quali possono essere le conseguenze etiche di questa esperienza del corpo – casa – mondo all’interno della vita sociale. Cosa succederebbe se in questa società, che fa l’esperienza di versare il sangue per l’odio e la violenza, si accogliesse l’esperienza del corpo della donna che versa il sangue per dare la vita e lasciare crescere l’altro fino a che ne ha bisogno?

          In una società, come la nostra, nella quale l’economia è basata sul consumo delle cose e che consuma anche le vite, si potrebbe anche passare ad un’economia dove realmente e per tutti il mondo diventi una casa abitabile. La donna ha la memoria simbolica del proprio corpo come una “casa” ed anche l’esperienza storica della gestione della “casa” della famiglia; è forse arrivato il tempo in cui la donna, con il suo modo specifico di essere “mondo”, esca finalmente al mondo, per fare di questo mondo una casa abitabile per tutti.

          Si pensi al riguardo ad una ragazza araba, ad una adolescente australiana, ad una studentessa toscana o a quella indiana: che non sia che, attraverso il loro corpo, possiamo ripensare nuove modalità per custodire la vita in modo inedito, oggi, in questa nostra storia? Quasi che non sia il pensiero a darci il vero accesso alla vita, ma al contrario è la vita che permette al pensiero di accedere a sé, dal momento che la verità della carne lancia il suo messaggio, forte e chiaro, a chi ha a cuore il destino del mondo. Se la donna sperimenta nel suo corpo la lenta maturazione e trasformazione della materia, là dove una cellula arrivi a costituire un essere umano, c’è da sperare che il tempo, dentro il travaglio della storia, sia in grado di partorire - a tempo dovuto – nuove e sorprendenti manifestazioni di amore per il mondo.

          Si potrà obiettare che oggi codice femminile e codice materno non sono più sovrapposti; il dato antropologico sembra confliggere con l’ethos di legami duraturi, dal momento che anche la relazione madre-figlio è drammaticamente esposta alla disgregazione “liquida” dei rapporti umani. Basti pensare al fenomeno inquietante dell’abbandono dei neonati, alla trascuratezza e alla violenza che si abbattono sui minori anche all’interno delle famiglie.

          Conviene quindi approfondire alcuni paradossi che attraversano queste terribili vicende, queste maternità rovesciate: le stagioni culturali legate all’emancipazione della donna l’ hanno affrancata dall’esclusiva marcatura biologica, così che oggi si nasce quasi sempre scelti, desiderati. Eppure trascuratezza e violenza sui bambini non sembrano significantemente diminuiti. I traumi delle gravidanze indesiderate, vissute nel passato sulle spalle delle donne, sono oggi sostenuti e risolti dalla legittimazione dell’aborto. Eppure gravidanze portate a termine con la nascita di un neonato non riescono più a generare disposizione a prendersi cura, affetto, attenzione, sacrificio. Quasi che si generassero bambini ma non si generassero figli… [E. Scabini, 2004].

          Se un tempo il legame madre – figlio si sosteneva e si alimentava “naturalmente” tramite quel con– sentire che permetteva la crescita di quell’empatica corrispondenza affettiva tra madre e neonato (che anche oggi è possibile registrare biologicamente), oggi – si parla certo di eccezioni che sono comunque spia di difficoltà comune a tante donne – il legame non genera automaticamente amore, né l’amore è in grado di costruire una relazione forte.

          Insomma come ogni altra relazione umana – amicale o di coppia – anche quella tra madre e figlio appare scossa da una medesima instabilità emotiva, nonostante la volontà di investire molto, nel presente, sulla qualità dei rapporti umani. Come spiegare questi paradossi, che si riflettono più in generale nella diffusa incapacità umana di investire nel futuro, di costruire legami duraturi? [P. Binetti, 2009].

          Qualcosa di epocale è avvenuto all’interno di quel complesso intreccio tra natura e cultura; un tempo virtuoso se è vero che la natura femminile con la sua marcatura biologico – maternale trovava il supporto, il potenziamento in un modello culturale rigido – certo – ma sicuro: l’essere madre rappresentava in questo scenario il culmine dell’esperienza vitale della donna, il raggiungimento della sua identità. Oggi questo asse è rovesciato: è la cultura che prende il sopravvento sulla natura e che, scindendo la dimensione propria del femminile dalla possibilità di essere madre, fa fatica ad interagire con una natura, colta a volte come ostacolo per la diversa e più completa realizzazione di sé.

          In questo mutamento epocale anche il vincolo madre – figlio appare drammaticamente coinvolto, il legame più forte – cifra di tutti i legami – diventa il più debole, incapace di valorizzare quell’enorme carica simbolica che prima rivestiva, esposto com’è all’insicurezza sociale e a quella sorta di nichilismo biologico, decantato da tanto femminismo.

          Se qualcosa si è perso, comunque, si deve imparare a riconquistarlo, coltivando soprattutto sul piano simbolico quella dimensione generativa che porta a considerare la realizzazione di sé attraverso l’altro, attraverso la cura e la premura a ritessere un legame mai scontato, ma riaccettato ogni volta. Un legame non può distendersi dentro le frammentarie pulsioni delle emozioni, che rapidamente esauriscono la loro carica affettiva, disperdendosi nella inconcludente traiettoria del desiderio. E’ proprio all’interno di quest’ultimo che occorre ricomprenderne l’intenzionalità profonda, dal momento che la tensione desiderante verso il legame con l’altro impone la fatica dell’“affetto”, che è un altro modo per dire desiderio di legare e di essere legati.

          L’affetto, forma impressionale e passiva della relazione umana ( affetto , dal latino afficio – is, è l’essere affetto, toccato da qualcosa o qualcuno) può diventare la disciplina esigente dell’amore che, nel reciproco scambio, scopre la dimensione imperativa, esigente del legame. Dentro questo riconoscimento etico, il legame non è più il segno oppressivo del dominio sul più debole (come tanta parte del femminismo continua a ripetere), ma la trama della cura, che cementa la relazione intersoggettiva al cui interno ciascuno si sa consegnato all’altro.

          In tal modo l’affetto cresce e matura, facendosi legame, diventandone l’espressione significativa, perdendo il carattere di pura emozionalità, che è il prodotto narcisistico del soggetto incapace di riconoscere la sua origine, la sua storia generativa, cioè, che lo vede anello essenziale di una catena che consegna un senso, che deve essere ancora di nuovo riconsegnato.

          A quanti scorgono il presunto tono tradizionale e restaurativo di questo paradigma etico, si può rispondere che gli orizzonti post-umani, intravisti dal femminismo, sembrano – al di là di certe posizioni radicaleggianti- alla fine aspirare ai valori, tipici di un contesto autenticamente umano, quali l’impegno, la cura, il rispetto, la condivisione, che appaiono ancora oggi insostituibili, non negoziabili.

          Va da sé che la realizzazione dell’identità femminile, la sua libertà, la sua accresciuta autonomia – valori alti e imprescindibili- non possono che potenziarsi nella pratica consapevole del desiderio verso legami affettivi non provvisori, non esposti all’instabilità emotiva. Abbandonando il paradigma utilitaristico, entro cui la donna e l’uomo si interpretano in rapporto all’altro solo in base al guadagno psichico che ne ricavano, si può guardare ad un percorso etico che impegni a prendersi cura della realtà esistente, nello sforzo di dotare questa realtà di relazioni significative, qualitativamente dense e affettivamente gratificanti [P. Gomarasca, 2007].

          Se l’amore, come ricorda Georg Simmel, “è una delle grandi categorie formative dell’esperienza”[G. Simmel, 2001], capace di potenziare legami duraturi che sfidano la caducità del tempo dentro il gioco affascinante delle relazioni intersoggettive che si trovano, si perdono, per poi ritrovarsi ancora, si deve pensare che l’apprendistato etico guadagnato dentro la famiglia costituisca la possibile via per metabolizzare il rischio del fallimento dei legami, e di immaginare nuovi percorsi di rigenerazione del tessuto sociale.

          Non sorprenda che questo breve excursus rimandi alla cellula originaria del vivere sociale che è la famiglia: ogni essere umano qui giunge al mondo ed è sempre qui che cresce nella sua identità personale, scoprendo nella rete dei contatti affettivi il gusto di sentirsi uguale e diverso, protagonista attivo della vita familiare eppure dipendente da essa, da quanti vivono al suo interno attraverso quella rete sussidiaria, che lega “naturalmente” genitori e figli e che si esprime nella spontaneità del linguaggio del corpo.

          Un altro modo per dire che il corpo vissuto non è mai proprietà personale, non è un soggetto assoluto di diritti, né dovrebbe mai diventare oggetto di sopruso o merce di scambio, ma un bene comunicativo che possiede parole che vanno intercettate e reimparate.

Anche oggi, nel “nostro” 8 marzo.

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