“Riflessioni sulla Gaudium et Spes”

Peppone si seccò e andò a piantarsi a gambe larghe davanti a don Camillo: “Si può sapere che cosa volete da noi? Veniamo forse noi da voi?”. [Risponde don Camillo]: “E cosa c'entra? Anche se voi non venite in chiesa Dio esiste sempre e vi aspetta”...

“Riflessioni sulla Gaudium et Spes”

da Teologo Borèl

del 24 ottobre 2008

È stato un atto di grande sapienza quello compiuto dal vostro Vescovo, di far precedere alla celebrazione del Sinodo Diocesano una riflessione seria sulle quattro Costituzioni del Concilio Vaticano II. Come infatti disse Giovanni Paolo II, il Concilio deve essere la “bussola” che guida la Chiesa nella sua vita e nella sua missione.

La recezione del Magistero conciliare non sarà compiutamente realizzata se non si realizza nella Chiesa particolare. È nella Chiesa particolare che la Chiesa di Cristo vive ed opera in mezzo agli uomini, dentro alla loro vita quotidiana, per trasfigurarla in Cristo.

Ovviamente il breve tempo concesso ad una conferenza non consente una riflessione articolata e completa sulla Cost. past. Gaudium et spes [d’ora in poi GS]. Dovrò limitarmi ad una sola prospettiva, che devo subito chiarire.

 

1. Prospettiva della riflessione

 

Non mi propongo, dico subito, di fare il riassunto di tutta la Costituzione: potete leggerla e rileggerla.

Mi propongo di mostrarvi l’intenzione profonda che ha generato questa costituzione. Cercherò cioè di rispondere a questa domanda: che cosa fondamentalmente i Padri conciliari hanno voluto dirci promulgando la GS?

Sempre in via preliminare, possiamo trovare un grande aiuto nel costruire la risposta a quella domanda, nel titolo stesso. Esso dice: “Ecclesia in mundo huius temporis”.

Vi prego di prestare in questo momento soprattutto attenzione alla congiunzione in. Due realtà, Chiesa/mondo; anzi [e la cosa non è priva di significato] mondo di oggi, sono considerate congiuntamente. E la loro congiunzione non è espressa con un et [Chiesa e mondo], ma con un in: la Chiesa nel mondo.

La cosa dona molta materia di riflessione. Chiesa e mondo non sono pensate e considerate come due realtà costitutivamente, originariamente indipendenti ed estranee l’una all’altra. La Chiesa è dentro al mondo ed il mondo ha un rapporto colla Chiesa intrinseco.

Se non ci si mette in questa prospettiva, ci si imprigiona dentro ad un groviglio di problemi di necessarie mediazioni per istituire il rapporto fra i due. L’uscita da questo groviglio o è un integralismo rigido o è un aperturismo autodistruttivo.

Ma che cosa significa ciò che dicevo poc’anzi [la Chiesa è dentro al mondo…]? Come deve essere pensata e realizzata questa presenza della Chiesa nel mondo, o – il che equivale – la pur necessaria mediazione tra proposta cristiana e storia umana, fra storia della salvezza e storia umana? È precisamente per rispondere a queste domande che il Concilio ha prodotto la GS.

A dire il vero, i Padri conciliari non riuscirono a costruire una risposta sempre dotata di una sua intrinseca coerenza ad armonia, anche a causa della novità e della difficoltà delle questioni. Tuttavia, la Chiesa, recependo questa Costituzione soprattutto attraverso il grande Magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, attraverso i Sinodi dei Vescovi, attraverso la grande esperienza dei Movimenti ecclesiali, ha dato origine ad una esperienza di pensiero e di testimonianza cristiana, di cui sicuramente anche il vostro Sinodo sarà un segno esemplare.

 

 

1. Cristo verità – bene dell’uomo

 

Fatte queste necessarie premesse, comincio a rispondere alla domanda, che per comodità ripeto: come deve essere pensata e realizzata la presenza della Chiesa dentro al mondo?

A me sembra che la “chiave di volta” della risposta che la GS dà a questa domanda si trovi al n° 22,1 “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore.

Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” [EV 1/1385].

Era il testo conciliare che Giovanni Paolo II amava maggiormente, e che si trova citato pi√π spesso nel documenti del suo Magistero. Dobbiamo fermarci a considerarlo con molta attenzione.

Il testo parte da un presupposto oggi fortemente contestato dalla cultura in cui viviamo. La persona umana non è una “materia”, una “massa” assolutamente informe, affidata completamente ed esclusivamente alla propria libertà. Un materiale grezzo sul quale esercitare la nostra attività creatrice. La persona umana ha una sua propria natura; ha una sua verità.

Non solo. È certamente una domanda decisiva circa l’uomo quella che riguarda la sua origine: da dove viene, da dove deriva l’uomo? Ma è ancora più importante la domanda circa il suo destino finale: a che cosa è destinato definitivamente l’uomo? o la domanda equivalente: quale è la vocazione dell’uomo?

Il testo conciliare risponde alla domanda circa la verità dell’uomo, alla domanda: chi/che cosa è l’uomo? E alla domanda: quale è la vocazione dell’uomo? Risponde dicendo che la risposta è Cristo, il Verbo incarnato. Non nel senso – questo è molto importante – che Egli semplicemente insegna una dottrina circa l’uomo, la verità circa l’uomo. Ma nel senso che Egli stesso, la sua persona – vita – opera – parole, “svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”.

Questa “rivelazione dell’uomo all’uomo” accade in un certo senso in obliquo: è rivelando Dio come “il mistero del Padre”, che l’uomo viene a sapere interamente chi è e quale è il suo definitivo destino, la sua “altissima” vocazione.

Se la verità dell’uomo [= risposta esaustiva alla domanda “chi è l’uomo?”] e il suo destino finale [= risposta alla domanda “a che cosa è destinato l’uomo?”] è una persona, è Cristo, l’apprendimento di questa verità coinvolge necessariamente la libertà così come il consenso a quel destino. È un punto di fondamentale importanza per capire la GS, sul quale desidero fermarmi un momento.

Se Cristo “rivelasse all’uomo chi è l’uomo” dando semplicemente un insegnamento circa l’uomo, sarebbe sufficiente mettere in atto la nostra ragione: comprendere il contenuto di quella dottrina, verificarne la verità. Ma poiché Cristo “rivela l’uomo all’uomo” in Se stesso e con Se stesso, apprendere la risposta significa ed esige entrare in rapporto con Lui, vivere in una profonda comunione con Lui. Questo è possibile solo se lo decidiamo liberamente. La proposta cristiana è costitutivamente una proposta che si rivolge alla libertà, poiché propone una verità che si identifica con una persona, la persona di Gesù. E l’impegno cristiano non è la “dedizione ad una causa”, ma la passione per una Persona, Gesù Cristo.

Ma entriamo ora più esplicitamente nel contenuto dell’insegnamento della GS. Che cosa significa “Cristo … proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”.

Partiamo dalla semplice costatazione del desiderio che abita in ciascuno di noi di raggiungere una pienezza della nostra umanità. L’humanum che ci definisce è in tensione verso la propria realizzazione, è un germe che ha in sé la forza di crescere e fiorire. Faccio un solo esempio. Ciascuno di noi desidera amare ed essere amato, e quindi mette in atto questo desiderio, cerca di dargli compimento.

GS insegna che l’uomo, ogni uomo, trova risposta piena al suo desiderio di pienezza solo nell’incontro con Cristo. È questo incontro la pienezza della sua umanità.

È questa una posizione di “integralismo”? Bisognerebbe prima di tutto intendersi bene su quale attitudine denotiamo con questa parola. In ogni caso, se Cristo realizza la pienezza dell’humanum, ciò significa e comporta che niente di ciò che è veramente umano deve rimanere estraneo all’incontro con Cristo. È quanto l’apostolo Paolo insegna: “tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” [Fil 4,8]. Se invece riteniamo che l’uomo possa raggiungere autonomamente la propria pienezza e salvezza, allora siamo fuori della fede cristiana: abbiamo semplicemente rifiutato la proposta cristiana.

Vi dicevo che questo insegnamento della GS è la chiave di volta della risposta che GS dà alla seguente domanda: come deve essere pensata e realizzata la presenza della Chiesa nel mondo? Vediamo come.

Partiamo da un passaggio importante della GS, una vera e propria dichiarazione di intenzione: “la Chiesa non è mossa da alcuna ambizione terrena; essa mira a questo solo: a continuare, sotto la guida dello Spirito paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito” [3,2; EV 1/1323]. La Chiesa dunque non esiste per se stessa, indipendentemente da Cristo. Essa ne è la presenza continuata nel mondo. In essa e mediante essa Cristo continua la sua missione. Quale? È stata precisamente enunciata nel testo che abbiamo appena commentato: rivelando il mistero di Dio come Padre, come amore, rivela all’uomo interamente l’uomo e la sua altissima vocazione.

La domanda era: come deve essere pensata e realizzata la presenza della Chiesa nel mondo? La risposta comincia a profilarsi: come colei che “rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”. E può fare questo perché essa è semplicemente la continuazione della presenza di Cristo nel mondo.

Per capire bene questo primo abbozzo di risposta, dobbiamo ora introdurre un concetto assai importante che la GS suppone più che esplicitamente proporre e che invece è una categoria centrale della Cost. dogm. Lumen gentium: la presenza di Cristo nella Chiesa è una presenza sacramentale. Detto in altri termini: la Chiesa è il sacramento primordiale della presenza di Cristo nel mondo.

Sacramentale, notatelo bene, non si oppone a reale. La sacramentalità denota la modalità con cui la Chiesa è realmente la presenza di Cristo nel mondo.

La presenza reale-sacramentale è quella che si dà nel segno. Pensate alla presenza di Gesù nell’Eucarestia. Essa si dà non fisicamente ma nel segno del pane e del vino. Così è la Chiesa. Essa è visibile come società umana. Ma nel segno della sua realtà visibile c’è la presenza reale ed operante di Cristo che salva l’uomo.

La Chiesa è dunque nel mondo come sacramento della presenza di Cristo venuto per redimente l’uomo; è il sacramento della presenza di Cristo “Redemptor hominis”, “arrecando la luce che viene dal Vangelo e mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che …, sotto la guida dello Spirito, riceve dal suo fondatore” [3,2; EV 1/1322].

La più profonda interpretazione di questo magistero conciliare è stata data da Giovanni Paolo II quando nell’Enciclica programmatica del suo pontificato scrisse che la via della Chiesa è Cristo, che la via della Chiesa è l’uomo. La Chiesa è sulla stessa strada dell’uomo; non offre e non propone all’uomo vie alternative alla vita umana quotidiana. La Chiesa è sulla via dell’uomo come lo fu Cristo: per condurre l’uomo alla sua vera pienezza. Pensate a Cristo che cammina coi due discepoli di Emmaus: si potrebbe rileggere lo stupendo n° 6 della Spe salvi, anche.

 

2. Dentro alla vita umana

 

La GS non manifesta solo l’intenzione della Chiesa di essere nel mondo. Non insegna solo come questa presenza vada pensata e realizzata. Nella seconda parte, [cfr. 2,1; EV1/1320: “come essa intende la presenza …”] essa affronta alcuni ambiti [“problemi più urgenti”] del vivere umano, mettendo, per così dire, in atto il metodo esposto nella prima parte.

Fedele a quanto mi sono proposto, non esporrò il contenuto dei singoli capitoli. Desidero esporre lo stile, se così posso dire, con cui i temi vengono trattati.

Nelle pagine precedenti ho usato molto spesso il termine mondo. Quale realtà esso denota? Di che cosa parla GS quando parla di mondo? La risposta, molto articolata la si trova al n° 2, cpv 2° [1321]. Il “mondo” è la realtà umana nel suo faticoso costruirsi. È quindi lo sposarsi ed il dare origine alla famiglia; è il lavorare; è la costruzione di società umane sempre meno ingiuste. Insomma: è il modo in cui la persona umana dimora e si colloca nella realtà.

 

→         Possiamo già cogliere il primo tratto dello “stile” di GS: fra il mondo così inteso e la proposta cristiana non c’è giustapposizione, non c’è contrapposizione, ma integrazione. Lo dirò in modo più semplice: ciò che tu professi e celebri alla domenica ha a che fare colla tua vita di lunedì.

Vi prego di prestare molta attenzione a quanto sto per dire: è di importanza fondamentale. Non sto parlando della coerenza sul piano pratico fra il credere ed il vivere: non basta professare la fede senza poi viverla.

Sto parlando della esigenza della fede di operare la costruzione dell’humanum come tale, di generare cultura. E che cosa è la cultura? È il modo con cui l’uomo – singolo e società – si pone dentro alla realtà. E sto parlando di un humanum che chiede di essere liberato e pienamente soddisfatto nelle sue esigenze o inclinazioni naturali.

È lo stile dell’Incarnazione: il Dio in cui crediamo è un Dio fattosi uomo. L’umanità di Cristo assunta dalla persona del Verbo è la primizia della nuova umanità.

 

→         Il secondo tratto dello “stile” di GS è una conseguenza, o meglio è implicato nel primo. Subito dopo la pubblicazione della Costituzione era indicato dal tema dei “segni del tempo”. L’espressione è poi praticamente scomparsa dal dibattito ecclesiale. Di che si tratta?

Perché la fede generi cultura, perché il credente cooperi all’edificazione dell’humanum, è necessario che egli sia in grado di elaborare un giudizio sull’humanum stesso: un giudizio interpretativo, un giudizio valutativo.

Un giudizio interpretativo: capire che cosa sta accadendo; un giudizio valutativo: ciò che sta accadendo come deve essere giudicato, positivamente o negativamente?

Ogni giudizio, se è un giudizio ragionevole, è elaborato alla luce di criteri. Che cosa sono i criteri di giudizio? È ciò per cui affermo o nego ciò che affermo o nego. Ciò che è la luce per i nostro occhi, sono i criteri per la nostra facoltà di giudicare. La luce della fede mi dona i criteri di giudizio e purifica la mia ragione, ispirandone e governandone l’attività.

La più grave debolezza di cui oggi soffre il cristiano, una vera malattia mortale, è la sua incapacità o grande difficoltà a elaborare giudizi interpretativi e valutativi di ciò che sta accadendo. Il risultato, o i sintomi di questa grave malattia sono la riduzione della fede a fatto privato, l’accettazione del dogma fondamentale dell’individualismo: “io non lo faccio [non convivo, non ricorro all’aborto…] ma perché devo proibire per legge ad un altro di farlo?”.

È lo stile del discernimento: questo tema è stato centrale fin dal tempo della catechesi apostolica, come dimostrano gli scritti del Nuovo Testamento.

 

→         Il terzo tratto dello “stile” di GS è il dialogo. Sarebbe questo un tema che meriterebbe una riflessione molto prolungata. Mi devo ormai accontentare di qualche telegrafica annotazione, premettendo che non si parla di dialogo inter-religioso, che ha cioè per tema il Mistero di Dio. Parlo del dialogo sull’humanum, che può accadere non solo con persone di fede diversa, ma anche con chi è ateo.

È una verità, già espressa negli scritti neotestamentari, che il credente deve “rendere ragione” della sua fede: una fede non ragionevole e pensata, non è degna dell’uomo. La fede cristiana infatti si è presentata come fede vera: essa cioè si propone come risposta vera alle domande della ragione.

In quanto fede vera essa può rivolgersi ad ogni uomo di ogni cultura, popolo e nazione. Non solo, ma essa è amica della ragione, e quindi il credente come tale è in grado di dia-logare [dia-logos] con ogni persona che faccia uso della ragione.

Non si tratta di entrare in dialogo mettendo fra parentesi la fede; non si tratta di imporre la propria fede. Si tratta di fare uso della propria ragione. E ciò può essere impedito da due punti di vista: una fede solo esclamata e non interrogata o una ragione che si autolimiti al solo uso del metodo scientifico. Fideismo e scientismo sono i veri nemici mortali del dialogo.

 

Lo “stile” dunque che GS ci ha insegnato è lo stile dell’Incarnazione; è lo stile del discernimento; è lo stile del dialogo.

 

3. Conclusione

 

Siamo giunti alla fine. Possiamo dire che esiste una forma sintetica per indicare la presenza della Chiesa nel mondo: la forma della testimonianza, colla vita e colla parola. Ambedue necessarie. Il testimone mostra una vita che attesta una Presenza: una Presenza che risponde all’invocazione del cuore; il testimone spiega colle sue parole l’evento che è accaduto: rende ragione della sua fede e della sua speranza.

Se chi lo vede ed ascolta “apre il cuore”, e chiede di “provare”, di poter verificare, inizia il cammino di ricostruzione dell’umanità: inizia il momento educativo.

Testimonianza educativa o proposta educativa generata dalla testimonianza: questo alla fine ci insegna GS.

Lo aveva ben capito il pi√π grande scrittore cattolico italiano del secolo scorso, G. Guareschi, in una stupenda pagina, che riporto integralmente.

 

Peppone si seccò e andò a piantarsi a gambe larghe davanti a don Camillo: “Si può sapere che cosa volete da noi? Veniamo forse noi da voi?”.

[Risponde don Camillo]: “E cosa c’entra? Anche se voi non venite in chiesa Dio esiste sempre e vi aspetta”.

Lo Smilzo intervenne: “Il reverendo ha forse dimenticato che noi siamo scomunicati?”.

“È una questione di secondaria importanza – replicò don Camillo –. Anche se siete stati scomunicati, Dio continua ad esistere e continua ad aspettarvi. Scusate tanto: io non sono iscritto al vostro partito, non pratico la Casa del Popolo e sono considerato un nemico del vostro partito. Per questi fatti potrei forse asserire che Stalin non esiste?”.

“Stalin c’è, e come! E vi aspetta al varco!” urlò Peppone.

Don Camillo sorrise: “Non lo metto in dubbio e non l’ho mai messo in dubbio. E se io ammetto che Stalin esiste e mi aspetta, perché tu non vuoi ammettere che Dio esiste e ti aspetta? Non è la stessa cosa?”.

Peppone rimase molto colpito da questo elementare ragionamento.

Ma lo Smilzo intervenne: “La sola differenza è che, mentre il vostro Dio nessuno lo ha mai visto, Stalin lo si può vedere e toccare. E se anche io non l’ho visto e toccato si può vedere e toccare quello che Stalin ha creato: il Comunismo!”.

Don Camillo allargò le braccia: “E il mondo sul quale viviamo io, te e Stalin non è forse una cosa che si vede e si tocca?”.

 

Lo Smilzo aveva capito tutto: “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi; ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunziamo anche a voi” (Cf. 1Gv 1,1-4).

 

 

 

Imola, Aula Magna del Seminario, 17 ottobre 2008

 

 

mons. Carlo Caffarra

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