Romania

Esperienze missionarieNel mio ritorno a casa ho compiuto l'ultimo tratto in treno, e mentre mi trovavo in stazione aspettando che il treno arrivasse, in quel momento ciò che occupava di più la mia mente e il mio cuore non era la voglia di tornare al mio paese, così come non era la nostalgia della Romania: in quel momento non mi sentivo legato a nessun luogo...

Romania

da Iniziative in tour

del 01 gennaio 2002

CE MARFA

Beh, intanto ciao a tutti! Il mio nome è Daniele e quest’anno ho scelto di trascorrere un mese estivo a Bacau, una città posta nel nord–est della Romania, dove da 3 anni è sorta una casa salesiana.

Mi sono avvicinato al mondo missionari attraverso la Scuola di Mondialità. A Bacau ci siamo siamo stati inseriti nelle attività oratoriali (estate ragazzi) e in camposcuola che la casa salesiana del posto organizza.

La realtà romena che ho avuto modo di conoscere (soprattutto la realtà giovanile) è molto diversa da quella italiana: ciò che mi ha colpito di più è una povertà diffusa, ma sulla quale bisogna stare attenti a non fare confusione.

Prendiamo ad esempio la povertà materia-le: in Romania per fortuna non si ha la povertà dell’Africa che sfocia in denutrizione, bensì ogni bambino ha le sue scarpe, i suoi vestiti e un suo aspetto decoroso. Questo per lo meno osservando un bambino da lontano: se infatti accorci le distanze, man mano che ti avvicini ti accorgi che i vestiti non sono proprio dell’ultimo modello, che anzi spesso i vestiti non sono nemmeno puliti, e se poi ti avvicini ancora di più, entri a stretto contatto, ti accorgi che è piuttosto trascurato nel corpo: vive con niente di superfluo, anzi talvolta non ha nemmeno l’indispensabile. Ciononostante di fondo c’è dignità, c’è voglia di reagire contro questa povertà, c’è vitalità.

C’è una povertà familiare per cui, soprattutto nelle città, molti bambini rimangono affidati a se stessi in quanto uno o entrambi i genitori partono per l’estero in cerca di miglior sorte: le conseguenze sono immaginabili e negative.

C’è una povertà di degrado, per cui spesso l’ambiente che ti circonda assomiglia a un area post–bombardamento, con case e fabbriche diroccate, cadenti.

Ciò che non c’è invece è una povertà relazionale, in quanto i rapporti di amicizia e di legame che uniscono tra loro i romeni sono in genere più forti di quelli che instauriamo noi italiani: da questo punto di vista siamo nettamente più poveri noi. É proprio questa la cosa che mi ha colpito di più: la facilità di relazione che i giovani romeni avevano tra di loro e con noi italiani, e la sempre maggiore convinzione che è principalmente sul piano relazionale che giochiamo il nostro essere uomini, il nostro essere felici, il nostro essere cristiani.

Nel mio ritorno a casa ho compiuto l’ultimo tratto in treno, e mentre mi trovavo in stazione aspettando che il treno arrivasse, in quel momento ciò che occupava di più la mia mente e il mio cuore non era la voglia di tornare al mio paese, così come non era la nostalgia della Romania: in quel momento non mi sentivo legato a nessun luogo, avevo in mente soprattutto le relazioni che avevo vissuto, quelle che speravo di continuare in futuro e quelle che mi accingevo a vivere nel mio presente. Avevo in mente la fortuna che ho avuto nell’incontrare Enrica e Alessandra, le due ragazze con cui ho condiviso un mese della mia vita, nello stare a contatto con la comunità salesiana di Bacau, nel conoscere altri volontari italiani, nel condividere il mio tempo con bambini, ragazzi e tutti coloro che ho incontrato e, cosa importante, che non ho scelto. È questo l’aspetto più importante: nella mia esperienza in Romania mi sono capitati tutta una serie di incontri, che io non avevo programmato di fare, e che mi sono successi senza che io li stabilissi.

Ed è proprio attraverso questi incontri che ho trovato un metro per misurare quanto sono in grado di amare, ossia di volere il bene di una persona; perché in quei frangenti, quando ad esempio un ragazzo chiedeva la mia disponibilità ad essergli vicino, ad interagire con lui, era in quel momento che io potevo scegliere se dargli il mio tempo o no, potevo scegliere se servirlo o no e da questo si misurava la mia capacità di accorgermi di colui che mi sta accanto. E gli esiti, in quelle poche volte in cui nel mio piccolo sono riuscito ad accorgermi della persona che mi circonda, sono fantastici perché passi dalla solitudine alla comunione, dalla confusione della tristezza alla gioia del capire che ti realizzi nell'altro.

E a quel punto puoi dire 'CE MARFA'!, che potrebbe essere tradotto in 'che figata'!

Ma tutto questo perde di senso se non traduci, non adatti quello che hai vissuto là alla tua realtà quotidiana, perché altrimenti quel mese resta solo un’esperienza, un qualcosa fine a se stesso che non cambia la tua vita e che ti lascia solo un po’ di 'gasamento'. Come fare per convertire il nostro stile di vita?

Ricette non ne ho, ma credo che da solo, contando unicamente sulle nostre forze, non sia fattibile. È necessario creare innanzi tutto una relazione con Colui che, se ci credi, è l’artefice stesso di te, di coloro che ti circondano e dell’ambiente in cui vivi: è questa relazione è la preghiera, quella che coltivata anche poco ma in modo costante ti entra dentro e acquista in te sempre più senso.

E poi forse alla fine si tratta di vincere su se stessi, su quella che è una predispo sizione naturale a pensare solo a noi stessi: perché come dice Francesco d’Assisi, 'è nell’aver vinto su te stesso che sta la perfetta letizia'.

Daniele

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