In sostanza immiserisce, nella sua oggettiva povertà di minuscola componente chimica, anche l'oggetto della rinuncia: una vita unica e irripetibile.
del 09 novembre 2009
 
Vivere in democrazia ha vantaggi indiscutibili. Primo fra tutti la libertà di dissentire. Civilmente, s’intende. Perciò nessuno – ribadiamo nessuno – ci potrà impedire, da oggi e sino a quando avremo la forza per ripeterlo, che 'no'... questa pillola davvero non ci va giù. La Ru486, la compressa salita agli onori delle cronache per l’effetto taumaturgico che le è stato acriticamente attribuito, sarà presto a disposizione di qualunque donna italiana che voglia intraprendere un percorso abortivo.
 
 
 
Questa pillola sostituisce, con un colpo netto, le pratiche chirurgiche che sino a ieri hanno accompagnato, dentro i limiti della legge 194, l’aborto legale. Quello cioè previsto da una legge dello Stato che oltre trent’anni fa fu oggetto di un ampio dibattito, oltre che di profonde divisioni e di confronti culturali di altissimo livello. Sino a giungere al referendum abrogativo che vide soccombere i promotori. È storia di ieri, ma è difficile che i nostri giovani sappiano associare i nomi di alcuni politici del tempo a quelle battaglie.
 
Con ogni probabilità non saprebbero spiegarci neppure quale fosse la posta in gioco nel voto del 17 maggio 1981. Anzi, siamo sicuri che ormai percepiscano l’aborto come un diritto («c’è una legge») e non come una semplice opzione personale alla quale si può ricorrere solo per scelta, mettendo in moto i 'tribunali' della ragione e della coscienza. Dunque, nulla di 'leggero', come invece si vuol fare intendere.
 
Ora, nessuno di noi pensa di evocare i confronti di allora. Eppure c’è qualcosa che ci induce ad affermare che il clima di questi giorni, la leggerezza con la quale si è accettata l’introduzione in Italia della pratica dell’aborto chimico, siano il segnale – forse conclusivo – del processo di banalizzazione partito tanti anni addietro. Un processo che porta alla rimozione, mediante l’insostenibile impalpabilità di una pillola, della domanda essenziale: a cosa sto rinunciando?
 
Sostiene Zygmunt Bauman che il nostro è il tempo in cui «la cultura è disimpegno, discontinuità e dimenticanza. In questo tipo di cultura e nelle strategie delle politiche della vita che essa valorizza e promuove, non c’è molto spazio per gli ideali». Cosa di meglio, in questo orizzonte esistenziale, di una pillola che, al pari di un’aspirina, liquida un grande problema con un gesto ordinario e minimale, di quelli che tutti abbiamo interiorizzato nel nostro subconscio come il massimo della semplificazione?
 
Ed è qui, in questa nuda verità, il cuore della questione culturale – se volete antropologica – legata alla Ru486. La pillola, in sé, allontana il dramma dell’aborto e la percezione che di esso possono avere tanto la donna quanto l’uomo. In fondo, se basta una pillola per rinunciare a una vita umana, quella stessa vita perde di valore. Il mezzo, in questa circostanza, reca con sé un profondo rimbalzo simbolico. In sostanza immiserisce, nella sua oggettiva povertà di minuscola componente chimica, anche l’oggetto della rinuncia: una vita unica e irripetibile.
 
Ora è facile immaginare la replica: i soliti cattolici che vedono la vita dappertutto. Certo, è una vita (ci si passi il gioco di parole) che ci educhiamo a riconoscere la vita in ogni sua espressione. Ed è proprio per questo che non possiamo arrenderci alla cultura della banalizzazione dell’aborto che la Ru486 reca con sé. E non sarà mai nessun medico interessato a sgravarsi la coscienza, lasciando le donne sole con la propria scelta e quindi a gestirsi l’aborto 'fai da te', a convincerci che così è tutto più facile.
 
Né ci convincerà la propaganda incessante che saluta come un avanzamento di civiltà ogni cosa che venga approvata in un angolo di questa nostra Europa esausta e dimentica del proprio deposito di umanità. Dunque battaglia culturale dev’essere perché non possiamo legittimamente fidarci di tutte le assicurazioni, di tutti i 'vigileremo' che sono stati pronunciati in questi giorni, di tutte le promesse di rispetto della legge 194 (guarda cosa ci tocca chiedere...), perché la storia di questi ultimi trent’anni sta lì a dimostrare che si va in un’unica direzione: l’estensione di massa delle pratiche abortive e la mancata attuazione di tutte le buone azioni preventive.
 
La legge 194 è incompiuta, e tale, purtroppo, temiamo che resti. Non vediamo infatti nel fronte abortista, di varia estrazione culturale, alcun interesse reale ad applicarla in tutte le sue parti, a cominciare dalla promozione della vita. A dimostrazione che le leggi vengono sezionate chirurgicamente dalla prassi medica, e pervicacemente piegate a interessi ideologici. Ora, come non pensar male in queste circostanze? Come non temere che, viste le premesse, la Ru486 diventi ben presto il metodo abortivo più gettonato, grazie anche alla propensione dei medici abortisti ad allontanare da sé la responsabilità dell’aborto, che con la pillola è tutto e solo a carico della donna e della sua coscienza?
 
Interrogativi culturali legittimi che ci fanno dire, una volta di più, che quella pillola proprio non ci va giù. E che nei prossimi mesi e nei prossimi anni sempre più si dovrà affinare l’analisi dei fenomeni sociali e culturali che essa produrrà. Basti pensare al solo equivoco contenuto nel nome. La pillola Ru486 non è un farmaco, non cura ma produce la morte. Chiamatela diversamente, quella compressa. Almeno non coprite questa somma ipocrisia che offende la medicina ippocratica.
 
Ma forse è chiedere troppo per il politicamente corretto che impera nella bolla culturale che avvolge il Paese. Che preferisce parlare di 'interruzione volontaria della gravidanza' (e non di aborto) e di 'frutto del concepimento' (e non di embrione). Ma con le parole non si può giocare troppo a lungo: prima o poi presentano il conto. Anche a chi vive e prospera nell’omissione culturale.
 
Domenico Delle Foglie
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