Lettera di un missionario della Consolata sulla recente situazione drammatica in Kenya...una situazione di tutta l'Africa, non solo di un paese. La storia di un intero continente che sta sprofondando nell'abisso dell'indifferenza e della depradazione da parte di noi occidentali. Occorre aprire gli occhi!
del 12 gennaio 2008
Carissimi e carissime,
 
Catastrofi umanitarie, genocidi e guerre tribali compongono, nell’immaginario dell’Occidente, la normalità dell’Africa post- coloniale. È un profilo scontato: un modello accettato che indigna, sgomenta, che in certi casi mobilita la solidarietà delle opinioni pubbliche. Ma solo eccezionalmente, dalle dichiarazioni, scaturiscono azioni. Un pezzo di Africa è saltato in aria in questi giorni di inizio anno. Questa volta è toccato al Kenya aggiudicarsi la ribalta della cronaca internazionale. Triste sorpresa, inaspettata per tutti, il colosso dai piedi di argilla è crollato, e si unisce alla già lunga catena di Paesi africani colpiti periodicamente da colpi di stato, guerre a “bassa intensità”, rigurgiti di fatiscenti movimenti di ribelli in triste competizione per il primato della cronaca, in un continente alla deriva.
 
La fragile convivenza tra le più importanti tribù (Kikuyu, Luo e Luya) in alcune province della Rift Valley si è spezzata, alimentata probabilmente dalla campagna elettorale di alcuni cinici politici. Tale rivalità politica ha iniziato ha cavalcare l’onda delle linee tribali subito dopo l’indipendenza, covava sottotraccia come un fiume carsico, ed è emerso improvvisamente questa volta nella combustione della rabbia dei poveri abitanti degli slums di Nairobi, nelle città del Nord-Ovest, Kisumu ed Eldoret, e in alcune dei distretti nomadici del Nord. La frode elettorale quindi non ha fatto altro che accendere la miccia e lanciarla nella miscela esplosiva delle condizioni miserabili degli slums e nelle rivalità tribali. La rabbia montante degli abitanti degli slums e la convivenza tesa nelle città, incandescente sotto la cenere ai tempi della dittatura del presidente Moi, attendeva il momento propizio per la deflagrazione. Le atrocità successe sono state documentate prontamente, le foto sui giornali e nei siti web hanno portato nelle nostre case il carico di vittime, di distruzione, le file di sfollati e profughi. Ora è emergenza umanitaria, sociale e politica, e per la nostra gente l’amara conferma di un Africa che difficilmente potrà cambiare.
 
I nostri media nazionali dando una grande copertura di notizie del Kenya, hanno innescato la solita onda emotiva, complice il periodo natalizio e la sorte di migliaia di nostri connazionali in vacanza sulle spiagge di Malindi e vicino a Mombasa. Certamente di grado inferiore a quella sulla sorte dei nostri connazionali in vacanza alle Maldive travolti dallo Tsunami insieme alle popolazioni locali il 26 Dicembre del 2004. Mentre il termometro emotivo è sceso in fretta per le alluvioni nel Bangladesh o il terremoto in Perù dell’anno scorso, perché troppo lontano e … senza coinvolgere dei turisti occidentali!!
 
Comunque, è questione di giorni, anche il Kenya finirà nel dimenticatoio, se non ci saranno improvvise recrudescenze di violenza eclatanti e, appena i tempi lunghi della negoziazione garantiranno la sicurezza delle spiagge e degli interessi economici occidentali, il Kenya rientrerà dal ruolo di protagonista mediatico. Una storia che si ripete periodicamente in Africa ogniqualvolta scoppia una tragedia: come per lo sterminio silenzioso dei Nuba in Sudan, il dramma dei profughi del Darfur, gli Aborigeni del Botswana, la situazione del Kivu nella RD del Congo, la Costa d’Avorio spaccata in due, l’autoritarismo di Mugabe nello Zimbabwe, e i 250 mila disperati che hanno abbandonato Mogadiscio negli ultimi dieci giorni del novembre 2007 in una Somalia precipitata nell’anarchia dopo l’intervento delle truppe etiopiche e i bombardamenti americani.
 
Non va piuttosto sprecata l’occasione per riflettere sulla drammatica situazione di milioni di persone in Africa, sul ruolo strategico di alcuni Stati nella guerra per procura contro il terrorismo, sull’ipocrisia delle relazioni politico – economiche che l’occidente in generale e l’Europa in particolare intrattiene con essi. I morti, gli sfollati, i 100.00 profughi del Kenya non scalfiranno più di tanto l’indifferenza collettiva, semmai la preoccupazione dei tuor operators e la perdita di immagine di una nazione in balia dell’alternanza di elites corrotte alla mercè di un consistente compagine di ricchi bianchi e indiani. La reazione violenta, solo apparentemente incontrollata, e l’afferrate atrocità hanno sorpreso il mondo intero e frantumato l’immagine di un Kenya, “nazione pacifica”, incontaminata dai mali, ora però delusa di se stessa e ridotta a conferma desolante di un’ impressione generale che tanti hanno sull’Africa alla deriva, fuori controllo e senza speranza.
Così la garanzia di stabilità smentita in Kenya assume il ruolo di uno spartiacque storico, che neanche il più resistente del cinismo dei suoi politici, gli toglierà il posto dell’ennesima delusione africana.
 
Le violenze scoppiate in Kenya sintetizzano interessi, business e potere, locali e internazionali. La meno ripresa faccia sporca dell’Occidente in Africa, dove l’Europa, attraverso i soldi, esporta i suoi interessi e quel peggio che solo nel Terzo Mondo può ormai permettersi. (…)
Puntare i riflettori sulla situazione in Kenya significa lasciare la vetta dell’iceberg africano, per scendere in profondità dove sopravvive una massa sommersa, alla deriva, costituita da miseria, corruzione e violenza. Dopo la fine della Guerra Fredda, fino al 2001, l’Africa sullo scacchiere internazionale ha perso la sua rendita geopolitica, per diventare serbatoio di materie prime e nuovi mercati da conquistare. Le cancellerie occidentali oggi sono preoccupate dalla conquista dell’energia africana da parte della Cina e saltuariamente della liberazione di sprovveduti turisti o inermi lavoratori come è successo in Niger pochi anni fa e periodicamente in Nigeria.
 
L’appello che lancio è quello di andare oltre le emozioni suscitate dalle immagini e dagli articoli strappa lacrime che alla fine additano nell’odio tribale l’unico fattore da colpevolizzare, uno stereotipo troppo comodo da brandire, e molto più facile da intuire per la gente in Italia. Piuttosto l’informazione dovrebbe porsi alcune domande per sollevare inquietudini e dubbi sulle cause dei misfatti scavando nella storia passata e più recente. Chiedersi, per esempio, perché negli ultimi anni migliaia di contadini in Kenya, sono stati costretti a lasciare i loro piccoli appezzamenti di terreno per riversarsi negli slums di Nairobi, una cintura di case in lamiera dove pullulano milioni di miserabili e disperati attorno ai fatiscenti grattacieli del ricco centro. Chiedersi su quali mercati vanno a finire le rose coltivate in centinaia di serre spuntate come funghi negli ultimi dieci anni vicino a Nairobi e sugli altopiani in prossimità di Nanyuki. E come mai il Kenya un tempo capace di sfamare la propria gente, ora è costretto ad importare granoturco, mentre giornalmente voli charters esportano ortaggi all’estero. Nient’altro che la lotta per la sopravvivenza spinge i poveri nelle bidonville e quando la rabbia rompe gli argini si riversa incontrollata lungo le strade! Ora solamente chi ha vissuto in uno slum, o almeno l’abbia visitato una volta, può intuire questa rabbia repressa. Di Soweto e di Korogocho, soprattutto di Kibera che da solo vanta una popolazione equivalente a quella di Torino, complessivamente 3 milioni di persone invisibili su totale di 4 milioni, ammassati sul 5,5 % del territorio della municipalità di Nairobi.
 
Dice un proverbio ugandese: “Se la nostra casa brucia, è solo perché qualcuno le ha dato fuoco ed ora vi soffia sopra”. Una cosa dovrebbe essere affermata con forza: è troppo sbrigativo e troppo comodo condannare l’odio “tribale” per giustificare il tutto!! (…)
I tumulti del Kenya sono un atto di accusa indiretto, ma molto efficace, di tutto un continente. Perché, come per il Kenya, anche dell’intero continente africano ci riserviamo la parte “utile”. E i nostri interessi li affidiamo alle multinazionali, gli emissari della globalizzazione neoliberista che saccheggiano e mettono tutto all’asta per il massimo profitto. L’accaparramento delle materie prime e dei minerali strategici del Congo, la competizione per i giacimenti di petrolio in Angola, Sudan, Ciad e offshore nel Golfo di Guinea, le zone franche della Somalia dove smaltiamo i nostri rifiuti tossici, i legnami pregiati della Rep. Democratica del Congo e della Liberia, i diamanti del Botswana e le cavie umane negli ospedali della Nigeria su cui sperimentare i vaccini da usare poi per i nostri malati. E infine strozziamo le deboli economie africane con il “dumping”, o le obblighiamo ad aprirsi alla competizione commerciale asimmetrica con le nostre merci, colture e manufatti. E’ quello che è successo pochi giorni prima che scoppiassero i tragici fatti in Kenya. L’epilogo delle trattative portate avanti con affanno dagli araldi del commercio della Unione Europea per imporre ai Paesi ACP (Africa, Carabi e Pacifico) gli accordi di partnerierato economico (i famigerati EPAS) prima della scadenza del termine il 31 dicembre 2007. La fragilità del Kenya potrebbe diventare il grimaldello per sfondare le esitazioni e resistenze di alcuni coraggiosi paesi africani e così portare all’approvazione generale di tali accordi economici, un colpo mortale inferto alle deboli economia africane.
 
All’Africa terra di una nuova colonizzazione corrisponde – come conseguenza - l’Africa delle crisi umanitarie, dei campi profughi, della pandemia dell’Aids e dei bambini orfani, lasciata alla cura di missionari e missionarie, di volontari e ONG, un esercito di “Buoni Samaritani”, la buona coscienza di un mondo disorientato, a cui spetta di curare le ferite causate dalle logiche economiche neoliberiste. La situazione in Kenya chiama in causa il mondo intero, il senso dei “Live aid”, dei “global funds” e le briciole di aiuti per lo sviluppo devolute dai governi occidentali, quando rimangono invariati gli interessi delle politiche economiche e degli accordi commerciali imposti alle economie dei Paesi Africani. Quando con una mano si intende donare, mentre con l’altra di fatto si continua a derubare e saccheggiare impunemente.
 
Il Kenya chiede oggi all’Italia vicinanza e una corretta informazione. Inoltre alla galassia di giovani ed adulti che ogni estate invadono le missioni, aiutano i progetti delle ONG e di altre associazioni umanitarie, chiede più giustizia e meno beneficenza, più prevenzione che cura, più coraggio nella profezia che adozioni a distanza! Un cambiamento di mentalità e di stile di vita per riconoscere che ciò che è successo esige un salto di qualità nell’approccio ai problemi dello “sviluppo”. Insieme alla carità c’è bisogno di giustizia, di una forte dose di coraggio per denunciare le cause strutturali delle ingiustizie e della povertà, gli accordi di libero scambio e le politiche economiche basate sul principio di reciprocità con gli Stati africani che invece avrebbero bisogno per risollevarsi di un trattamento preferenziale.
 
E’ innegabile che l’Africa e il Kenya devono molto al lavoro dei missionari, uomini e donne intraprendenti che si sono dedicati ad aiutare la gente, a volte fino ad immolare la propria vita per le popolazioni che da sempre avevano amato. Per onorare la loro memoria, e alla luce dei fatti successi in Kenya oggi, noi missionari non possiamo non chiederci fino a che punto il messaggio cristiano è penetrato in profondità, dopo decenni di evangelizzazione, valorizzando e purificando culture e stili di vita, fino a che punto i nostri progetti di sviluppo hanno mirato al cuore della convivenza tra le popolazioni, e fino a che punto siamo stati capaci di spegnere le rivalità, dopo aver visto in Kenya, l’odio, la vendetta e gli assassini prevalere sul perdono e la pace.
 
Per questo è urgente una verifica seria, una rielaborazione delle priorità pastorali, della tipologia e della finalità dei progetti di “sviluppo”. Bisogna tornare al Vangelo, nella sua essenza e, con urgenza, come è successo in Sud Africa e in Ruanda, inserirci nell’iceberg umano del Kenya, con la gente osare una riconversione pastorale che inevitabilmente dovrà avere a cuore la testimonianza e la formazione alla pace e nonviolenza, alla riconciliazione e il perdono. Se vogliamo evitare che nel prossimo futuro l’ombra lunga dei massacri del 1994 in Ruanda, non investa anche il Kenya!
 
Non dobbiamo demordere, i tempi sono difficili, preghiamo e speriamo affinché il Kenya possa risollevare il capo e camminare verso un avvenire di pace ancorata alla giustizia e al perdono. In Italia e in Europa per questo resta ancora molto da fare, se vogliamo aiutare veramente il Kenya e l’Africa prima che affondi nell’abisso!
 
p. Antonio Rovelli
missionario della Consolata
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