Salute, la fede in sala operatoria.

Nuovi studi aprono suggestivi scenari sul rapporto tra spiritualità e salute. Offrendo un supporto nuovo e inaspettato alla cura delle patologie. La fede allunga la vita. I credenti ne sono convinti senza bisogno di conferme.

Salute, la fede in sala operatoria.

da Quaderni Cannibali

del 30 marzo 2011

          Nuovi studi aprono suggestivi scenari sul rapporto tra spiritualità e salute. Offrendo un supporto nuovo e inaspettato alla cura delle patologie. Come in un’esperienza italiana di trapianto del fegato - La fede allunga la vita. I credenti ne sono convinti senza bisogno di conferme. Fino a oggi, invece, la comunità scientifica ha espresso un atteggiamento ambivalente, tra aperture e scetticismo.

          A ribaltare la situazione arriva uno studio importante, realizzato dall'Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa, che mostra la relazione tra fede religiosa e probabilità di sopravvivenza all’interno di un gruppo di 179 pazienti, i quali hanno subito un trapianto di fegato.

          Secondo lo studio, pubblicato di recente sulla rivista Lover Transplantation, i pazienti che, rispondendo a un questionario dichiaravano di aver vissuto in concomitanza con la malattia un profondo ritorno alla religione e alla spiritualità, hanno registrato un rischio di morte tre volte inferiore rispetto a quanti affermavano di non avere un sentimento di religiosità attiva: «Tra questi ultimi si è registrata una mortalità del 20,5 per cento, mentre nei pazienti sorretti dalla fede in una potenza superiore la mortalità è scesa al 6,6 per cento», dice Franco Bonaguidi, psicologo presso l'Ifc-Cnr di Pisa e coordinatore dello studio insieme a Claudio Michelassi, Franco Filipponi e Daniele Rovai.

          Al momento, i dati più solidi sul rapporto fede e salute riguardano una ricerca realizzata nel 2001 presso la clinica Mayo, che ha censito i risultati di 42 studi, prendendo in esame complessivamente 126 mila persone. La conclusione è stata che la pratica religiosa - in questo caso non è stata presa in esame la fede, ma il fatto di frequentare o meno un luogo di culto - aumenta la possibilità di sopravvivenza. Anche se è difficile valutare il «peso» dell’atteggiamento spirituale, rispetto a quello di comportamenti «virtuosi» che possono migliorare la prognosi: è probabile infatti che le persone che frequentano una comunità religiosa godano di una rete di relazioni sociali più solida rispetto ad altri, e tendano a evitare comportamenti a rischio come l’uso di alcol o droghe.

L’intuizione pisana          «È come se la scienza fosse vittima di un’amnesia collettiva, quasi una diffidenza invincibile, su questi temi, legata forse al fatto che negli ultimi secoli religione e pratica medica hanno seguito percorsi separati», osserva Bonaguidi. «Per questo mi sembra particolarmente importante che questo studio sia nato all’interno di un’unità operativa ad alta tecnologia, dove però si riscopre il valore del vissuto psicologico dei pazienti». Non si può negare che l’atteggiamento nei confronti del divino sia un aspetto importante della nostra personalità e non è difficile immaginare che possa influire anche nel nostro rapporto con la malattia: «Non sto dicendo che si possano curare i pazienti con la preghiera», sottolinea Bonaguidi, «ma che l’atteggiamento nei confronti della spiritualità può influire sulla salute di una persona».

          Una scoperta importante, nata quasi per caso nell’ambito delle valutazioni mediche e psicologiche cui sono solitamente sottoposti i candidati al trapianto, per valutarne l’idoneità e le reazioni: «Un trapianto di organo è di per sé un’esperienza stressante, non solo per il tipo di operazione, che mette il paziente a confronto con la propria fragilità - accogliere l’organo di un donatore ha comunque un forte valore simbolico e può essere vissuto in qualche modo come una «rinascita» - ma anche per la lunga attesa e la continua incertezza che spesso porta la malattia ad aggravarsi», spiega lo psicologo. Durante le interviste con i candidati al trapianto, gli psicologi si sono resi conto che molti di loro si erano riavvicinati alla religione e avevano subito un processo di profonda trasformazione. «È nata così l’idea di capire se questi sconvolgimenti potessero rappresentare un indice di fragilità psicologica o, al contrario, come è poi emerso, una risorsa», spiega Bonaguidi.

 

Un’indagine eloquente          I ricercatori hanno chiesto quindi di compilare un questionario sul loro atteggiamento nei confronti della religione a 179 persone con insufficienza epatica grave che avevano ricevuto un trapianto di fegato fra il 2004 e il 2007, presso il Centro trapianti dell'università di Pisa, poi seguite in media per 4 anni. «Non è raro che persone colpite da gravi malattie subiscano una trasformazione e vivano un’esperienza di crescita profonda», osserva lo psicologo. «Questi individui diventano persone vere, essenziali, riscoprono la compassione e la bellezza del mondo, in un’esperienza radicale di ribaltamento dei valori, che lo psicologo Bion definirebbe catastrofica». E molti si rivolgono a Dio, non tanto a quello delle religioni istituzionali quanto a un Dio privato, da riscoprire dentro di sé. «Sapevo di essere nelle mani di Dio, ho una profonda fede in lui e questo mi ha dato calma e tranquillità», ricorda uno dei pazienti intervistati.

 

http://www.buonanotizia.org

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