San Bartolomeo

La figura di san Bartolomeo, pur nella scarsità delle informazioni che lo riguardano, resta comunque davanti a noi per dirci che l'adesione a Gesù può essere vissuta e testimoniata anche senza il compimento di opere sensazionali. Straordinario è e resta Gesù stesso, a cui ciascuno di noi è chiamato a consacrare la propria vita e la propria morte.

San Bartolomeo

da Testimoni della Fede

del 01 gennaio 2002

Dall'Udienza Generale di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, nella serie degli apostoli chiamati da Gesù durante la sua vita terrena, oggi è l’apostolo Bartolomeo ad attrarre la nostra attenzione. Negli antichi elenchi dei Dodici egli viene sempre collocato prima di Matteo, mentre varia il nome di quello che lo precede e che può essere Filippo (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,14) oppure Tommaso (cfr At 1,13). Il suo nome è chiaramente un patronimico, perché formulato con esplicito riferimento al nome del padre. Infatti, si tratta di un nome di probabile impronta aramaica, bar Talmay, che significa appunto «figlio di Talmay». Di Bartolomeo non abbiamo notizie di rilievo; infatti, il suo nome ricorre sempre e soltanto all’interno delle liste dei Dodici citate sopra e, quindi, non si trova mai al centro di nessuna narrazione. Tradizionalmente, però, egli viene identificato con Natanaele: un nome che significa «Dio ha dato». Questo Natanaele proveniva da Cana (cfr Gv 21,2) ed è quindi possibile che sia stato testimone del grande «segno» compiuto da Gesù in quel luogo (cfr Gv 2,1-11).

L'identificazione dei due personaggi è probabilmente motivata dal fatto che questo Natanaele, nella scena di vocazione raccontata dal Vangelo di Giovanni, è posto accanto a Filippo, cioè nel posto che ha Bartolomeo nelle liste degli apostoli riportate dagli altri Vangeli. A questo Natanaele, Filippo aveva comunicato di aver trovato «colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret» (Gv 1,45). Come sappiamo, Natanaele gli oppose un pregiudizio piuttosto pesante: «Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46a). Questa sorta di contestazione è, a suo modo, importante per noi. Essa, infatti, ci fa vedere che, secondo le attese giudaiche, il Messia non poteva provenire da un villaggio tanto oscuro come era appunto Nazareth (vedi anche Gv 7,42). Al tempo stesso, però, pone in evidenza la libertà di Dio, che sorprende le nostre attese facendosi trovare proprio là dove non ce lo aspetteremmo. D’altra parte, sappiamo che Gesù in realtà non era esclusivamente «da Nazareth», ma che era nato a Betlemme (cfr Mt 2,1; Lc 2,4). L’obiezione di Natanaele era quindi priva di valore, perché fondata, come spesso accade, su un’informazione incompleta.

Un’altra riflessione ci suggerisce la vicenda di Natanaele: nel nostro rapporto con Gesù non dobbiamo accontentarci delle sole parole. Filippo, nella sua replica, fa a Natanaele un invito significativo: «Vieni e vedi!» (Gv 1,46b). La nostra conoscenza di Gesù ha bisogno soprattutto di un’esperienza viva: la testimonianza altrui è certamente importante, poiché di norma tutta la nostra vita cristiana comincia con l’annuncio che giunge fino a noi ad opera di uno o più testimoni. Ma poi dobbiamo essere noi stessi a venir coinvolti personalmente in una relazione intima e profonda con Gesù; in modo analogo i Samaritani, dopo aver sentito la testimonianza della loro concittadina che Gesù aveva incontrato presso il pozzo di Giacobbe, vollero parlare direttamente con lui e, dopo questo colloquio, dissero alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42).

Tornando alla scena di vocazione, l’evangelista ci riferisce che, quando Gesù vede Natanaele avvicinarsi esclama: «Ecco davvero un Israelita, in cui non c’è falsità» (Gv 1,47). Si tratta di un elogio che richiama il testo di un salmo: «Beato l’uomo ... nel cui spirito non c’è inganno» (Sal 32,2), ma che suscita la curiosità di Natanaele, il quale replica con stupore: «Come mi conosci?» (Gv 1,48a). La risposta di Gesù non è immediatamente comprensibile. Egli dice: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico» (Gv 1,48b). A tutt’oggi è difficile rendersi conto precisamente del senso di queste ultime parole. Stando a quanto dicono gli specialisti, è possibile che, essendo a volte menzionato il fico come albero sotto cui sedevano i dottori della Legge per leggere la Bibbia e insegnarla, si alluda qui a un’occupazione del genere svolta da Natanaele nel momento della sua chiamata. Comunque, ciò che soprattutto conta nel racconto giovanneo è la confessione di fede finalmente resa in modo limpido da Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (Gv 1,49). Benché non raggiunga l’intensità della confessione di Tommaso con cui si chiude il Vangelo di Giovanni: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28), la confessione di Natanaele ha però la funzione di aprire l’intero quarto Vangelo. In essa è consegnato un primo, importante passo nell’itinerario di adesione a Gesù. Le parole di Natanaele pongono in luce un doppio, complementare aspetto dell’identità di Gesù: egli è riconosciuto sia nel suo rapporto speciale con Dio Padre, di cui è Figlio unigenito, sia in quello con il popolo d’Israele, di cui è dichiarato re, qualifica propria del Messia atteso. Non dobbiamo mai perdere di vista né l’una né l’altra di queste due componenti, poiché se proclamiamo di Gesù soltanto la dimensione celeste, rischiamo di farne un essere etereo ed evanescente, e se al contrario riconosciamo soltanto la sua concreta collocazione nella storia, finiamo per trascurare la dimensione divina che propriamente lo qualifica.

Sulla successiva attività apostolica di Bartolomeo-Natanaele non abbiamo notizie precise. Secondo un’informazione riferita dallo storico Eusebio del secolo IV°, un certo Panteno avrebbe trovato addirittura in India i segni di una presenza di Bartolomeo (cfr Hist. eccl. V,10,3). Nella tradizione posteriore, a partire dal Medioevo, si impose il racconto della sua morte per scuoiamento, che divenne poi molto popolare. Si pensi alla notissima scena del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, in cui Michelangelo dipinse san Bartolomeo che regge con la mano sinistra la propria pelle, sulla quale l’artista lasciò il suo autoritratto. Sue reliquie sono venerate qui a Roma nella Chiesa a lui dedicata sull’Isola Tiberina, dove sarebbero state portate dall’imperatore tedesco Ottone III nell’anno 983. Concludendo, possiamo dire che la figura di san Bartolomeo, pur nella scarsità delle informazioni che lo riguardano, resta comunque davanti a noi per dirci che l’adesione a Gesù può essere vissuta e testimoniata anche senza il compimento di opere sensazionali. Straordinario è e resta Gesù stesso, a cui ciascuno di noi è chiamato a consacrare la propria vita e la propria morte.

Piazza San Pietro Mercoledì, 04 Ottobre 2006

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