Non passò molto tempo quando un giorno mi imbattei in una specie di rissa: tanta gente usciva da una delle porte della città, c'erano volti a me ben noti, dottori della legge, farisei... I loro gesti comunicavano rabbia, come del resto le loro parole e i loro visi infuocati e sudati. Trascinavano un giovane, un discepolo di quel Gesù.
del 01 gennaio 2002
Non passò molto tempo quando un giorno mi imbattei in una specie di rissa: tanta gente usciva da una delle porte della città, c’erano volti a me ben noti, dottori della legge, farisei... I loro gesti comunicavano rabbia, come del resto le loro parole e i loro visi infuocati e sudati. Trascinavano un giovane, un discepolo di quel Gesù. Mi trovai in mezzo a quella folla quasi senza accorgermi e come loro agitavo le mie mani, urlavo, spingevo… Fuori dalla città quel giovane venne lapidato: io assistevo alla scena con un malvagio senso di compiacimento. I testimoni avevano lasciato i loro mantelli ai miei piedi. Non dimenticherò mai la serenità di quel volto che disarmò il mio spirito.
La lapidazione di Stefano, così si chiamava quel giovane, fu la prima di una lunga serie di violenze contro quella setta. Non c’erano più solo i romani che costruivano i patiboli, ma anche le mie mani e quelle dei miei compagni. Volevamo soffocare quella piaga ed eravamo convinti che i sistemi forti potessero bastare. Dalla mia parte, avevo il sostegno delle autorità religiose e questo era un forte scudo di fronte ai richiami della mia coscienza: entravo nelle case dei credenti, li obbligavo a raccontarmi su che cosa si fondava la loro fede, li costringevo a bestemmiare, li minacciavo, sputando, urlando, incatenando, percuotendo! Dio mio a che punto ero arrivato!!! Questo tuttavia non bastava a restituirmi la pace. Più colpivo, più mi sentivo disarmato; più ferivo, più la mia violenza esigeva di essere sfogata… e intanto quella setta continuava a crescere e a estendersi, nonostante tutto. Agire solo a Gerusalemme e nei dintorni era come battere l’aria. Bisognava dare un segno forte che si stava facendo sul serio: per tale motivo mi presentai al sommo sacerdote chiedendo l’autorizzazione di condurre in catene a Gerusalemme anche i seguaci che si erano nascosti oltre il territorio che apparteneva alla giurisdizione del procuratore romano. La richiesta era forte ed esplicita: volevo andare in Siria, più precisamente a Damasco. Il sommo sacerdote mi guardò fisso negli occhi e dopo un attimo di esitazione si compiacque per tanto zelo. Del resto la mia fama e la mia determinazione erano ormai ben note…
Mentre però mi dirigevo verso Damasco, il mio tormento interiore si acuì. Nella mia mente lottavano le immagini delle violenze commesse e la reazione disarmante delle mie vittime; il mio cuore era lacerato tra la rabbia e la tristezza, tra il furore appassionato e un immenso e devastante vuoto. Ricordo che il mio procedere era lento, le mie gambe erano pesanti come macigni. Il sole era una palla infuocata che mi bruciava le braccia, mi inaridiva il volto, mi seccava la lingua… A un certo punto sentii dentro di me come uno squarcio, una luminosità fastidiosa e dolorosa che si proiettava sul mistero che io volevo soffocare… una chiara presa di coscienza di ciò che ero, di quello che stavo facendo… Era come se tutti quei volti che io avevo percosso, umiliato, insultato, - volti di uomini, donne, bambini, volti di giovani e anziani -, riemergessero sotto le sembianze di quell’uomo, di quel Gesù di Nazareth, ripetendo: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Tale domanda all’inizio fu come sussurrata, sgorgando da dentro, poi si fece sempre più forte, rimbombando nel mio cuore, intontendolo… Sudavo, tremavo, mentre quella luminosità interiore che non veniva da me si faceva sempre più fastidiosa e dolorosa… le mie articolazioni si scomposero… crollai...
Mi fecero rinvenire i miei compagni: ricordo che mi facevano trangugiare acqua, ma non era di quella che aveva bisogno il mio spirito. Non riuscivo a reggermi, non avevo il coraggio di riaprire gli occhi, mentre le mie mani cercavano punti di riferimento in un paesaggio sfuocato. Ero uno straccio. A Damasco arrivai in queste condizioni. Un certo Giuda mi accolse nella sua casa: chiesi una stanza, oscurai la piccola apertura che dava sul cortile e mi rannicchiai in un angolo, tremando come un bimbo impaurito. Dentro di me c’era la notte. Vedevo solo macerie, le macerie causate dal crollo di tutte le mie certezze e da quella luminosità dolorosa che aveva trapassato il mio spirito. Rimasi in quella posizione per tre giorni, rifiutando ogni cibo e ogni bevanda.
Dopo quei giorni neri e vuoti come la morte e aridi come il deserto, si presentò un uomo di nome Anania. Il suo saluto aveva un timbro incerto ma la sua voce mi infondeva pace. Lo sentii avvicinarsi e percepii le sue mani che si posavano lievemente sul mio capo: in quei brevi istanti sperimentai per la prima volta che cosa è la Grazia, quale è la potenza del Risorto. Era una cascata di luce che irrompeva nel mio cuore, trascinando via tutte le mie sozzure. Mi aggrappai alle braccia che quell’uomo aveva steso sul mio capo, affondando il mio volto nel suo petto e piangendo come un bambino, come un bambino, come un bambino….
Mi fermo qui. Ciò che vi ho raccontato ha bisogno di tanto silenzio per essere compreso. non basta la ragione, non basta l'ascolto, non basta lo studio di ciò che sta scritto di me su tanti libri. Ci vuole il silenzio. Il silenzio davanti alla croce. allora capirete. Ne sono sicuro.
Come vi dicevo, ad Anania devo davvero molto. Ognuno di voi ha un “Anania” prezioso preparato esclusivamente per sé: si tratta di qualcuno che apre la strada, indica la via, aiuta a discernere, è segno della presenza di un Altro…
Ero ancora fisicamente debole quando iniziai il mio ministero di testimone dell’amore di Dio a Damasco. Chi mi ascoltava provava sconcerto, meraviglia: nella città i giudei mi consideravano totalmente impazzito, mentre i discepoli di Gesù sospettavano un inganno, una trappola. Anania faceva quel che poteva per difendere la mia causa… Solo il tempo poteva dare una garanzia al mio annuncio: del resto, li capivo… Ma il tempo mi giocò un brutto tiro e al posto di garantire la mia testimonianza, la soffocò: un giorno capii che la mia vita era in serio pericolo. C’era chi spiava i miei passi e i miei movimenti; addirittura il governatore del re Areta faceva tenere sotto controllo le porte della città, aspettando l’occasione propizia per uccidermi. Per scampare al pericolo mi nascosi in una cesta e mi feci calare durante la notte dalle mura della città, fuggendo verso Gerusalemme.
Ma anche a Gerusalemme le cose non andarono meglio: da un lato subivo la pressione delle minacce dei miei fratelli giudei, dall’altro il rifiuto dei miei nuovi fratelli in Cristo. Solo l’intervento di Barnaba, un discepolo in gamba e colmo di Spirito Santo, certamente inviato da Dio, facilitò il mio inserimento nella comunità. Fu in quell’occasione che incontrai per la prima volta Pietro e Giacomo, anche se devo riconoscere che la loro accoglienza non fu molto calorosa nei miei riguardi. La mia vita continuava ad essere esposta a un grave rischio per cui, alla fine, si decise che era opportuno che io ritornassi per un po’ di tempo a Tarso. Uscire dalla circolazione avrebbe aiutato a dimenticare quanti mi avevano in odio. Questione di mesi, pensavo, e invece, a Tarso i mesi diventarono anni… Ad un certo punto ebbi quasi la sensazione che Dio mi avesse abbandonato. Solo con il senno di poi, capii che quello era il tempo del deserto, della riflessione, della maturazione: il seme del Regno cresceva dentro di me e non c’era istante della mia giornata in cui non meditavo attorno al paradosso di quel Messia crocifisso e risorto, il cui annuncio doveva suonare davvero una stoltezza per i giudei e un’idiozia per i pagani. Eppure in quel Dio nudo appeso al legno io trovavo il cuore di tutta la buona novella!
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