Non è facile parlare della santità cristiana in modo convincente e nuovo all'uomo contemporaneo. La lingua ecclesiastica sconta su questo tema un ritardo rispetto ad altri ambiti della fede. Il cristianesimo scommette la sua verità nell'assumere Gesù quale modello di esistenza. La sua umanità è il paradigma di ogni santità. Cinque parole programmatiche che derivano dalla vita di Cristo.
del 25 ottobre 2007
Resterà sempre nei nostri cuori e nei nostri occhi lo straordinario scenario che ha dato il benvenuto ai delegati della chiesa italiana al 4° convegno ecclesiale nazionale a Verona, lo scorso 16 ottobre. Nell’arena della città scaligera essi sono stati, infatti, accolti dalle immagini dei beati e santi italiani: una moltitudine di uomini e donne, ora elevati agli onori degli altari per aver percorso la strada della sequela di Cristo. Il convegno è stato così intonato al ritmo della santità, tema successivamente declinato secondo la traiettoria della testimonianza di Gesù Cristo risorto, speranza del mondo. Una tale intuizione – quella del primato di Dio nella vita cristiana – è di straordinaria bellezza e decisività e su di essa vorremmo continuare a riflettere nel presente contributo, mentre attendiamo la Nota pastorale dei vescovi dopo Verona.[1]
Non vogliamo certamente nasconderci la difficoltà di parlare della santità cristiana in modo convincente e nuovo all’uomo contemporaneo. La lingua ecclesiastica, infatti, sconta su questo tema un certo ritardo rispetto ad altri ambiti della fede. Appena si inizia a parlare di santità, il clima diventa austero, quasi rigido, addirittura imbarazzato. Il discorso, comunque, non può non partire dal riferimento al prezioso dettato conciliare che ha senza indugio ristabilito l’universale vocazione di tutti i credenti alla santità. Tale feconda intuizione, tuttavia, si declina principalmente sul registro dei “consigli evangelici” (povertà, castità, obbedienza), fatto che potrebbe correre il rischio di congelare la questione santità a poche e ben definite categorie di cristiani.
Vorremo pertanto provocarci e provarci a “pensare” il tema generatore della vita cristiana, quello della santità, in modo che, in sintonia con la tradizione, esso possa apparire una scommessa veramente aperta per ogni uomo e per ogni donna di buona volontà.
 
La parola di Benedetto XVI
Come si è potuto già intuire, la domanda centrale cui cerchiamo di offrire qualche indizio di risposta è quella diretta del “come si diventa santi?”.
Dirimente ci appare un’indicazione offerta da papa Benedetto XVI nell’omelia del 1° novembre scorso, nella Solennità di tutti i santi. Dopo aver definito il santo come colui che sperimenta la vicinanza di Dio, il papa, avendo in mente la domanda sul come si può diventare santi, cioè amici di Dio, ha detto: «All’interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d’animo di fronte alle difficoltà».
Si può sintetizzare il messaggio del papa con la seguente formula: siate santi come Gesù. Tutto il nostro sforzo sarà, allora, nel cercare di definire esattamente il “come”. In questo ci riallacciamo alla recente spiritualità cristiana che intensamente lavora per mettere al centro Gesù, cioè per trovare nel vissuto concreto di Gesù le istruzioni per una vita buona e felice, cioè per una vita segnata dalla santità.
Sempre nell’omelia citata, verso la conclusione, il papa ricorda una metafora importante del vangelo di Giovanni, quella nella quale Gesù si autodefinisce come la vera vite, cui i discepoli, come tralci, debbono restare uniti. Sono le intense e straordinarie parole con le quali Gesù, al capitolo 15 del quarto vangelo, subito dopo la lavanda dei piedi, dà inizio al suo testamento spirituale. La santità – suggerisce dunque il papa – si configura come un “ascoltare” Gesù, un “seguirlo” e, infine, un “rimanere” in lui. Anzi il segreto della santità è questo bellissimo verbo “rimanere”: verbo che indica “assumere lo stesso stile di vita”, “comportarsi in modo simile”, indica cioè una saldatura di esistenze delle quali una diventa forza e origine dell’altra.
Questo, d’altronde, è lo specifico del cristianesimo. Esso non è un catechismo, non è un codice, neppure una morale e nemmeno un pensiero su Dio: il cristianesimo è propriamente questo rimanere in Gesù, ovvero imparare l’umanità da lui. In tutto ciò si diventa santi, cioè amici di Dio.
 
Imparare l’umanità da Cristo
La forza della religione cristiana è tutta nella “straordinaria umanità” del nostro Dio, che si rende manifesta nell’esperienza del giovane ebreo di Nazaret. Il Dio cristiano, infatti, visita la nostra storia non attraverso i segni di una gloria potente e irresistibile, ma nella forza disarmante di un bambino, di un giovane e di un adulto che, inserendosi nelle vicende travagliate di un piccolo popolo soggiogato dall’impero romano, insegna la verità dell’umano. E proprio in questa umanità di Gesù i cristiani di ogni tempo sono invitati a scoprire un modello felice per la loro esistenza. Quell’umanità è un modello felice, perché, diciamolo apertamente, non è mai stata una cosa da poco vivere bene, cioè in modo da non sentirsi insoddisfatti, tristi e (più recentemente) depressi.
Ogni volta, del resto, che siamo attraversati da domande del tipo “e ora che faccio?”, “ora che dico?”, “ora come mi comporto?”, proprio tali domande confermano la necessità di avere un modello, un riferimento e un metro di misura su cui poter giudicare le nostre decisioni e azioni. E il cristianesimo scommette la sua verità proprio nell’assumere Gesù quale modello di esistenza, quale guida per la vita quotidiana e insuperabile interprete della sempre affascinante e faticosa avventura della libertà. Perciò invita a diventare umani come Gesù. La sua umanità è dunque il paradigma di ogni santità. Nessuno ha vissuto più interamente, intensamente e consapevolmente di lui l’avventura dell’umano che siamo e nessuno più di lui può svelarcene la grammatica, che è anche grammatica della santità.
 
Gli “ingredienti” della santità
Sulla base delle precedenti riflessioni, porgiamo la nostra attenzione alla vita di Cristo. Attraversando velocemente il testo del vangelo, ci mettiamo alla ricerca di alcuni tratti esemplari del vissuto di Cristo, che siamo invitati a realizzare nella nostra esistenza.[2] Ne vorrei prendere in considerazione cinque: la concretezza, la compassione, il silenzio, la com-promissione e l’esposizione.
 
Concretezza
Il primo dei tratti del vissuto di Cristo che dovrebbe diventare ingrediente della nostra avventura di santità è quello della concretezza. La parola, lo sguardo e l’azione di Cristo è sempre attraversata da una mirabile concretezza. La sua presenza di spirito a ciò che accade è davvero straordinaria. I racconti evangelici riportano costantemente quanto Gesù sapesse scendere dentro i dettagli della vita quotidiana dei suoi contemporanei. Questo gesto di concretezza ha preservato il suo insegnamento dalla deriva ideologica: Gesù non fa programmi politici, parla in parabole, racconti aperti delle infinite variazioni della vita e della religione.
La concretezza ha evidentemente permesso a Gesù una tale prossimità al suo tempo che mai i suoi appelli suonarono (e ancora oggi suonano) come distratti o peggio ancora astratti. Non usa un vocabolario di tipo generalistico, la sua lingua è semplice, immediata, segue la direzione del suo sguardo e ogni sua parola diventa occasione non per capire qualcosa di nuovo, ma per imparare a guardare in modo diverso ciò che è già sotto lo sguardo dei suoi ascoltatori.
Gesù insegna a vedere, così come esplicitamente afferma al capitolo 12 del vangelo di Luca, ai versetti 22-31: «Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? Guardate i gigli, come crescono: non filano, non tessono: eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro». [3]
Commentando questo bellissimo passo, il teologo F.G. Brambilla ha giustamente sottolineato l’urgenza, per un autentico spirito cristiano di vivere il mondo, di riappropriarsi di quello «sguardo con il quale Gesù ci “fa guardare” la creazione quale luogo del dono continuo di Dio […]. Il perfetto parallelismo con lo snodarsi delle immagini, forse le più affascinanti della letteratura mondiale, presenta lo sguardo di Gesù come l’occhio con cui noi dobbiamo guardare (“Guardate”) il mondo: non tanto come mondo di cose da accumulare e da sfruttare, ma come luogo affidabile di una donazione continua di Dio e luogo simbolico per scoprire il “quanto più” […] della cura dell’uomo da parte di Dio. La donazione del mondo è il “luogo affidabile” per scoprire la cura di Dio per noi. Trattare il mondo come luogo dell’accumulo è una delle manifestazioni più gravi della “poca fede”, in cui possono incorrere anche i discepoli, definiti appunto gente di poca fede!».[4]
Avere uno sguardo concreto è la prima condizione per una vita santa e felice. Sull’esempio di Gesù, dobbiamo impegnarci a rendere il nostro sguardo limpido, eliminando tutto ciò che potrebbe offuscarlo, perché molta dell’infelicità umana nasce dal guardare con un occhio malato, dal guardare “di mal occhio” – è questa l’etimologia della parola “invidia” – gli altri e ciò che essi realizzano. Il discepolo, invece, cura il suo sguardo, non invidiando più: si sforza di vedere bene, di leggere bene, di descrivere bene e, infine, di dire bene ciò che gli capita, i suoi problemi, le sue potenzialità, i suoi desideri, lottando con tutte le forze contro l’onnipotente tentazione dell’approssimazione. In tal modo è in grado di “dire bene” e, alla fine, anche di “bene dire” la sua esistenza e la vita che lo circonda.
Spesso, al contrario, la maggior parte di noi dice male di sé e degli altri, perché vediamo male (invidiamo), e perciò (ci) malediciamo. E spesso vediamo male perché ogni giorno siamo sommersi da una quantità enorme di informazioni, di notizie, e di pettegolezzi, e alla fine ci abituiamo a dare giudizi astratti e distratti. Non fissiamo bene e non abbiamo più il senso per la nostra situazione: non siamo più in grado di descrivere bene, di dire bene ciò che ci capita.
Il primo elemento della santità è, pertanto, imparare la concretezza, il dire-bene che è premessa indispensabile di ogni “bene-dire”.
 
Compassione
Un secondo tratto che emerge nitidamente dall’esistenza di Gesù è la sua profonda compartecipazione a ciò cui gli capita di assistere. L’unico sentimento assente dal vangelo è l’indifferenza, intesa come mancanza di interesse per la vita “dell’uomo della porta accanto”: sia una vita che gioisce, che piange, che esulta, che giudica, che patisce la malattia o la morte, mai Gesù resta indifferente. L’incarnazione è come un abbraccio che si china sul più profondo dell’umano. La vera protagonista della vicenda di Gesù è la sua passione per ogni uomo che viene alla luce e non è un caso che l’unica legge data ai suoi è quella del comandamento dell’amore, unico antidoto ad ogni indifferenza.
In modo anche esplicito, nel vangelo troviamo indicato questo tratto della compassione: «Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!”» (Mt 9,35-38).
La nostra sensibilità, al contrario, normalmente sembra sotto anestesia: per eccitarci, per appassionarci a qualcosa necessitiamo di alcolici o addirittura di assumere farmaci. Siamo quasi tutti anonimamente depressi, e quindi sempre alla ricerca dell’esotico, del “non qui”, che declassano il quotidiano a pura oppressione, a tempo “non libero”, quindi a tempo non proprio, a una schiavitù: sarà un caso il fatto che, a proposito delle ferie, si utilizzi il termine “esodo” estivo? E, non raramente, il tempo (ordinario) diventa un nemico da ammazzare.
Il secondo elemento di una vita santa è quello di imparare a vivere di passioni autentiche, a lottare contro l’indifferenza. Una vita che si lascia accendere e riscaldare solo dalla “squadra – guarda caso – del cuore” è destinata ad un impietoso autogol: la nostra umanità è disponibile ad assumere orizzonti insospettabili di impegno e di servizio. Di com-passione.
 
Solitudine
È davvero sconvolgente la dismisura esistente tra i trent’anni passati nel più profondo anonimato a Nazaret e la brevità della missione pubblica di Gesù, la quale tuttavia non conobbe i ritmi infuriati degli uomini e delle donne del nostro tempo. Ebbe sempre cura, Gesù, di trovare momenti di raccoglimento, di solitudine, momenti segnati, secondo il racconto evangelico, dalla preghiera. Già il secondo giorno di missione pubblica è contraddistinto sin dall’inizio da questa pratica. Scrive l’evangelista Marco al capitolo 1 versetto 35: «Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava». La solitudine di Gesù non è vuota: è sempre (alla) presenza del Padre; è preghiera.
La preghiera è il tempo dell’esperienza con l’esperienza, è il tempo in cui ritornare a ciò che abbiamo vissuto, per coglierne le pieghe più nascoste, per guarire le ferite non ancora avvistate, per imparare sul serio la vita. Tutto ciò che ci fa (e ci ha fatto) crescere veramente è stato appreso proprio attraverso la pratica di un ri-torno vitale sul nostro vissuto, attraverso l’esperienza con l’esperienza. Del resto, dall’unica preghiera insegnata da Gesù ai suoi veniamo a comprendere (e sperimentare) che, solo alla luce dell’amorevole custodia paterna, la vita umana trova le parole giuste per formulare i propri bisogni e lasciare aperto lo spazio perché il desiderio possa fiorire.
Per questo il tempo della solitudine/preghiera è anche per noi propriamente tempo del Padre, tempo in cui rinnovare il nostro affidamento a lui e ricevere quella luce grazie alla quale poter scorgere la verità del mondo, di noi stessi e degli altri, grazie alla quale poter comprendere che la nostra terra non è il paradiso, che gli altri non sono Dio, che noi stessi non siamo Dio e che pertanto non possiamo amare questa terra come se fosse il paradiso né gli altri o noi stessi come se fossimo Dio.
Quando queste verità elementari ci sfuggono, allora diventiamo vittima dell’illusione e dello scoraggiamento. La preghiera, invece, ci dona lena e fa da leva per il nostro impegno nella storia, nell’attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, dove avrà stabile dimora la giustizia.
A questo punto non è complesso intuire quanto la velocità impressa dalla società tecnologica alle nostre esistenze ci renda difficile l’esercizio di una sana solitudine, quale spazio/tempo della preghiera. Per questo il terzo elemento della santità è dato dall’amore per la solitudine, per il silenzio e per la preghiera. Un amore che deve essere scelto e mantenuto fedele, perché la barca della nostra vita non finisca in balìa di altri capitani.
 
 
Com-promissione
Parlando della sua missione in mezzo all’umanità, Gesù utilizza un’espressione davvero illuminante. Dice: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49).
Per questo la sua parola non è la parola distaccata del maestro o del guru, che dall’alto della loro sapienza spargono insegnamenti a coloro li ascoltano. Gesù avanza nella storia con una promessa: è uno con-promessa; è un compromesso sino in fondo con la causa del regno di Dio.[5] Tale espressione, in un linguaggio più vicino al nostro, non indica altro che la seguente verità: è possibile fare altrimenti, si può essere umani altrimenti.
Nessuno, dice Gesù, è irreversibilmente destinato al peggio, al male, al deforme, al triste, allo stonato. È possibile cambiare, intervenire nella e sulla storia. Noi siamo condannati ad una fame insaziabile di cose davvero belle, davvero piene, davvero gioiose e davvero buone.
Nessuno, per Gesù, è destinato a fare il male, nessuno è destinato a legarsi alle parti peggiori della sua anima, nessuno è privo della possibilità (e della grazia!) di fare il bene, di rendere questo nostro mondo più dignitosamente umano.
In nome di questa causa Gesù non ha risparmiato letteralmente nulla di sé.
E noi, a servizio di cosa mettiamo ordinariamente la nostra esistenza: a servizio dei soldi, della carriera, di un qualche piccolo interesse?
Il quarto elemento della santità consiste nel comprendere che, solo al servizio di qualcosa di più grande di noi, la vita vale la pena di essere vissuta. Se si vive solo per sé, abbiamo già fallito.
 
Esposizione
L’ultimo tratto che marca l’avventura umana di Gesù è la sua capacità di esposizione. Essere adulti – è cosa nota – significa essere responsabili delle proprie idee e delle proprie azioni. In questo Gesù è oltremodo esemplare. Alla chiarezza di esposizione del suo messaggio corrisponde il coraggio della sua esposizione per quel messaggio.
Egli si lascia mettere letteralmente in croce: accetta le sfide dei maestri della legge, non si perde d’animo con i suoi discepoli e trova mille modi per dire che la sua vita è tutta un ricordo della più fondamentale rivelazione: «Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).
Dinanzi ad un tale Dio, nessun potere umano può stabilire chi è degno del suo amore e chi non lo è: chiunque crede può avere la vita eterna; il Figlio è qui perché il mondo – cioè ogni frammento di umano – sia salvato. Ciascuno è liberamente amato da Dio e nessuna disposizione umana, politica, religiosa, filosofica, economica, può stabilire diversamente. Gesù è l’assoluto e concreto testimone di questa verità, anche quando tale testimonianza diventa costosa. Il potere umano, infatti, si definisce sempre sull’esclusione, sullo sfruttamento, sull’annientamento di alcuni a vantaggio di altri. Per questo colui che espone il non negoziabile amore paterno di Dio per l’uomo, per ogni uomo – quell’amore che, se accolto, potrebbe diventare principio di un’umanità rinnovata in nome della fraternità universale, sconvolgendo gli atroci egoismi che ci dividono – deve morire. E muore pubblicamente esposto agli occhi di una folla stupita e incredula.
La santità è, dunque, incarnazione dell’unica e autentica missione di ogni discepolo di Gesù: quella di continuare, con le opere e con le parole, a testimoniare l’amore di Dio per ogni uomo e ogni donna, anche quando ciò costa.
Qui, infine, l’idea che la santità ultimamente consista nell’“imparare l’umanità da Cristo” potrebbe iniziare ad apparire convincente. E qui «forse intuiamo che e come la figura di Gesù ci convince tuttora per il suo stile di vita; si pensi solo alla sua coerenza tra gesto e parola, presenza e remotezza, al suo modo di agire e soffrire, di toccare la gente senza farsi comune con essa, di venire da lontano senza fare misteri o il difficile, di essere autonomo, signorile, eppure in tutto questo rivelando la presenza e la volontà di un Altro al quale si sottomette: la sua figura è e rappresenta una con-figurazione quanto mai sottile ed elementare, individuale e perciò inimitabile, che pure fa pensare e vivere l’umanità intera; e ognuno potrà trovarvi una traccia che gli dia dignità e orizzonte, gli infonda tenerezza e forza, gli ricordi la sua fragilità e signorilità». [6]
 
[1] Cf. Pizzighini M., “La Cei chiama alla missione”, Sett. n. 22/07, p. 16.
[2] Quanto segue è proposto come una prima approssimazione al tema. Non pretende, dunque, di esaurire il discorso. Ci piace, inoltre, dichiarare la nostra vicinanza e il nostro debito alla sensibilità teologica sviluppata con straordinaria intelligenza e profondità da G.C. Pagazzi: cf. in particolare i suoi Il pastore dell’essere. Fenomenologia dello sguardo del Figlio, Cittadella editrice, Assisi 2001 (scritto con F. Manzi); In principio era il legame. Sensi e bisogni per dire Gesù, Cittadella editrice, Assisi 2004; Il polso della verità. Memoria e dimenticanza per dire Gesù, Cittadella editrice, Assisi 2006.
[3]Non si dimentichi che per il Levitico i corvi sono animali impuri e che i piccoli dei corvi sono abbandonati molto presto dai loro genitori.
[4] Brambilla F.G., Chi è Gesù. Alla ricerca del volto, ed. Qiqajon, Magnano (BI) 2004, p. 101.
[5] Si ricordi la categoria della “pro-esistenza” sviluppata da H. Schürmann.
[6] Salmann E., Presenza di spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, ed. Messaggero, Padova 2000, pp. 16-17.
Armando Matteo
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