Saper cogliere il bello nell'altro

Nella relazione educativa i ragazzi chiedono di essere accolti per loro stessi e in tutta la loro complessità, e non come astrazioni dalle quali eliminare le parti considerate brutte o non funzionanti.

Saper cogliere il bello nell'altro

Al di là di atteggiamenti che inclinano più o meno insistentemente verso l’estetizzazione, la promozione educativa del bello richiede ricerca e riflessione per potersi orientare all’interno di una cultura contemporanea che tende a privilegiare soprattutto atteggiamenti di fruizione e di consumo del bello, tralasciando di orientare tale dimensione in senso più specificatamente antropologico, esistenziale e religioso. La complessità e la difficoltà di poter educare anche in tale direzione sono tutt’uno con la difficoltà di doversi misurare costantemente con gli aspetti di una cultura che tende a chiuderci in forme preconfezionate e fuorvianti, in immagini dell’effimero o in esperienze circoscritte alla sfera della percezione e della sensibilità, mentre tutte le altre componenti della vita personale tendono ad essere come anestetizzate.

Nei giovani, soprattutto, la ricerca della soddisfazione corre parallela a sensazioni di vuoto e di angoscia esistenziale, tanto che ci sarebbe da chiedersi se il vuoto dei giovani sia il segnale di una più ampia crisi esistenziale che coinvolge l’uomo e la società nel suo complesso come riflesso di un’epoca delle cosiddette «passioni tristi»[1] non più capace di sollecitare positivamente dall’interno la vita di ogni persona. 

Inutile dire che occorre farsi attenti osservatori e «lettori» dei segnali che contribuiscono a delineare forme di pseudoculture, per saper esercitare una forma di sguardo verso la realtà che non si accontenta dell’apparenza ma ricerca la profondità e il significato, che non si lascia attrarre soltanto da ciò che suscita emozione ma ricerca il bello come aspetto capace di comporre armonicamente la conoscenza del cuore e la ricerca del vero, che non si arresta all’immediatezza di cose e forme semplicemente da usare ma che coltiva l’atteggiamento della riflessione e dello stupore nei confronti della realtà.

Il bello, considerato in relazione alle diverse implicazioni dell’attività estetica, è componente intrinsecamente umana che contraddistingue l’interiore natura dell’uomo. 

«Non vi è uomo che non sia aperto al sentimento estetico, che non avverta un interiore piacere nel contatto con le forme sensibili, che non sia disponibile a percepire e cogliere il valore estetico, ad ammirare ciò che porta i sensi dell’ordine e dell’armonia. La dimensione estetica è componente della unitaria determinazione dell’uomo e concorre all’attuazione della ricchezza umana».[2]

In questa direzione di indagine acquistano rilievo tutte quelle situazioni e relazioni che si presentano come depositarie di un autentico senso del bello di contro agli edonismi, ai «non luoghi», alle non relazioni, alle esperienze prive di significato. Il compito che ci troviamo a dover affrontare come educatori ci coinvolge sul piano di una riflessione pedagogica che sappia essere in grado di articolarsi in maniera stretta con la prassi educativa per ricercare soprattutto il bello che educa.

Ma come muoversi? Da dove partire? 

Saper cogliere il bello in ognuno 

Un punto di avvio può essere rappresentato dall’interrogarsi come educatori sulle modalità attraverso le quali prendiamo in considerazione la persona educabile che ci si profila dinanzi.

Sono soprattutto gli adolescenti che costituiscono il nostro focus di attenzione. Ragazzi troppo spesso sbrigativamente considerati come problematici, visti dagli adulti come soggetti instabili, inquieti e impenetrabili, quasi a voler ribadire ad ogni costo una lontananza insanabile tra mondo adulto e mondo adolescenziale.

Certamente è innegabile che durante l’adolescenza i ragazzi entrino più facilmente in conflitto con i genitori, con gli insegnanti, e che tendano ad affermare in modo più risoluto la ricerca di autonomia e di riconoscimenti nei confronti della loro individualità. Gli adulti si trovano come spiazzati dinanzi a modificazioni e nuove richieste, faticano ad accettare tali cambiamenti, e spesso finiscono per rimarcare piuttosto gli aspetti critici delle dinamiche relazionali, per siglare come «difficili» i soggetti piuttosto che ridefinire la loro percezione e comprensione nei confronti dei ragazzi.

Ma a ben guardare non sempre si tratta di dover interagire con casi problematici, perché quando si lavora attraverso un coinvolgimento diretto, gli adolescenti ci appaiono in tutta la loro semplicità come ragazzi veri, trasparenti, autentici, desiderosi di trovare qualcosa che valga davvero. Animati da forti sentimenti, da energie realizzative e costruttive, essi attraversano il caos delle emozioni che gli palpita dentro, cercando in ogni modo di mostrare agli altri la propria unicità e profondità, soprattutto quando si lasciano coinvolgere sul piano del proprio sentire. 

Nella relazione educativa i ragazzi chiedono di essere accolti per loro stessi e in tutta la loro complessità, e non come astrazioni dalle quali eliminare le parti considerate brutte o non funzionanti. Dietro ogni adolescente c’è il bello della persona e della sua storia che ha spesso il potere di incantare l’educatore per le componenti della sorpresa, dell’imprevedibilità delle reazioni e delle conquiste, per la sincerità dei sentimenti che sono in grado di manifestare. Il bello della persona in crescita può essere colto soltanto attraverso un approccio educativo che consideri tutta la persona nella sua totalità, evitando parcellizzazioni ed errate identificazioni dell’adolescente con i suoi problemi.

Al di là delle specifiche attività e iniziative che possono essere intraprese, valgono quegli interventi che fanno leva su due componenti: la personalizzazione degli interventi e la condivisione delle esperienze, interventi educativi che stimolano il ragazzo a sentirsi al tempo stesso protagonista positivo della sua quotidianità ma anche partecipe di un gruppo all’interno del quale può trovare sostegno a quel malessere evolutivo e a quel disorientamento tipico della sua età.

L’attenzione per l’esperienza personale ­ 

La realtà dell’educazione come insieme di vissuti, esperienze e relazioni, risulta particolarmente «sensibile» alla ricerca di qualcosa di bello per la persona e la sua continua umanizzazione. Questa ricerca, a sua volta, rimanda alla complessità della persona come insieme di dinamiche (percezione, emotività, affettività, linguaggio, relazione, eticità, senso religioso), che si incontrano per delineare l’armonica e piena costruzione della personalità di ognuno nell’ottica della valorizzazione di ogni potenzialità, senza esclusioni e, soprattutto, rifuggendo da esiti educativi riduttivi o monotematici.

L’educazione al bello sulla quale sembra opportuno insistere nelle esperienze con gli adolescenti, non è fatta soltanto di modalità attrattive, non corrisponde in modo strumentale ad un’educazione che solleciti soltanto la percezione di cose, oggetti, esperienze che richiamano per il loro fascino e potere seduttivo, così come non significa necessariamente insistere su una rigida determinazione di ciò che è bello e di ciò che non lo è. Ogni esperienza è formativa per il soggetto se accompagnata da un percorso di elaborazione personale.

In questa direzione non è tanto importante che cosa la persona si propone dal punto di vista dei contenuti, quanto la modalità personale attraverso cui li elabora. I vissuti e le esperienze di ogni giorno, le fondamentali dinamiche e relazioni sulle quali si costruisce l’architettura della propria personalità, la stessa educazione come percorso mai concluso che ognuno di noi avvia su se stesso e in interazione con gli altri, rappresentano le principali modalità per poter comprendere sempre più noi stessi.

È importante non soltanto vivere quasi lasciandosi trasportare nel fluire quotidiano delle esperienze, attraverso un accumulo di informazioni, notizie, conversazioni chiacchierate, ma avere consapevolezza dei processi che caratterizzano il nostro «esser-ci». Esiste infatti un rapporto di reciprocità tra la conoscenza, i modi in cui noi la attuiamo e le nostre esperienze emotive e affettive, a loro volta espressione delle relazioni che riusciamo ad instaurare con gli altri. Occorre sperimentare il bello in termini di dinamica attraverso la quale ognuno è messo in condizione di individuare e attribuire un senso alle proprie esperienze e, in generale, alla propria vita. Non è un caso che la formazione condotta su genitori, insegnanti, educatori, catechisti, religiosi, abbia mostrato come una delle esigenze più avvertite è quella di saper rintracciare, a livello personale, modalità idonee per proporre e ricercare il bello insieme agli adolescenti.

Questi appaiono oggi sempre più distratti e come disturbati da una miriade di messaggi che impediscono loro di saper cogliere il bello. Gli adulti stessi, sollecitati a porsi tale interrogativo, sembrano propendere per una rivalutazione del bello soprattutto in termini di:

componente innervata nella propria esistenza; modalità per accostarsi alla realtà degli adolescenti; modalità per ricercare l’autenticità nella relazione con gli adolescenti; finalità intrinseca della relazione educativa; finalità alla quale tendere per recuperare una sorta di senso unitario e universale di armonia.

Il senso del bello viene ad essere qualcosa di più della sola sensibilità legata all’immediata percezione di cose e relazioni, di ciò che si fa presente all’interno della sola sensibilità e affettività, in quanto tenderebbe piuttosto a dischiudere alla coscienza un ambito più ampio attinente al modo in cui ognuno sviluppa un proprio sguardo sulla realtà e una modalità nel saperla interpretare.

L’esperienza del bello permette infatti di far sì che ogni soggetto elabori una propria interpretazione del mondo e degli altri, stili personali non soltanto percettivi, emotivi e cognitivi, ma anche relazionali, etici e valoriali. Saper riconoscere il senso della meraviglia, dello stupore, dell’incanto, all’interno della propria vita, modifica certamente il nostro modo di relazionarci e di saper attribuire un senso alle esperienze. 

I percorsi della meraviglia 

Se si prendono in considerazione i tratti fortemente edonistici ed estetizzanti della società e della cultura attuale che ha elaborato sofisticate modalità di ricerca del piacere e della soddisfazione, non si può che convenire sulla necessità di saper rintracciare percorsi per poter vivere la ricerca del bello all’interno di una formazione realmente armonica e integrale della persona che riconosca l’importanza della ricerca e dell’incontro con Dio.

Si può parlare di esperienze definite in termini di «percorsi dello stupore» oppure di «percorsi della meraviglia»; importante è assumere una prospettiva non semplicemente di attivismo operativo, ma tenere ferma l’attenzione sul recupero del significato che attraverso tali modalità si può attuare. Potrà trattarsi della visita ad un luogo carico di bellezza naturale, artistica, spirituale, si potrà prendere in considerazione l’attenzione dedicata ai momenti di preghiera personale e comunitaria, oppure all’avvicinamento dei ragazzi a situazioni di povertà e di sofferenza che educhino a saper riconoscere la bellezza laddove non siamo abituati a rintracciarla, a saper riconoscere la bellezza della croce che risplende nelle situazioni di vita più difficili. 

Le difficoltà in educazione, così come il disagio e i conflitti più accesi che rischiano di trascinare con sé il positivo e il buono dell’educare, producendo una sorta di «opacità» tra i soggetti, possono essere utili fonti e risorse di confronto. Anche se tende a non risultare così immediato, anche l’esperienza del dolore e della sofferenza possono essere coniugate con la ricerca di una componente bella quando all’interno di tali esperienze siamo in grado di sviluppare la capacità di saperci trascendere, di andare al di là, di superare i limiti che oggettivamente la realtà e alcune situazioni ci pongono.

Non sempre il bello risiede e appare circoscritto alle rappresentazioni che in tal senso ci vengono offerte. C’è un bello che potremmo definire antropologico verso il quale occorre orientare il nostro sguardo non sempre esercitato a coglierlo. Le esperienze di contatto e di relazione con situazioni anche «forti», si rivelano motivo capace di preludere all’acquisizione di una diversa e salda maturità della persona. Sono esperienze del bello all’interno della compartecipazione alla sofferenza degli altri, esperienze che si compiono e ci aprono alla relazione.

L’esperienza della sofferenza è indicativa di un «luogo antropologico» in grado di restituirci direttamente il senso di una natura umana che incontra e fa l’esperienza del limite, ma che in essa rintraccia e può ritrovare il bello della sua esistenza. Nell’Antico Testamento il profeta Isaia ci descrive con parole ricche di significato l’esperienza del cuore che gode della bellezza di Dio quando afferma: «I tuoi occhi contempleranno il re nella sua bellezza, mireranno una regione immensa» (Is 33,17).

Al tempo stesso però ci preannuncia e ci svela il mistero della bellezza che risiede nella sofferenza quando descrive l’uomo della croce: «Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come un radice da un suolo arido, senza grazia, senza beltà da attrarre lo sguardo, senza aspetto da doversene compiacere. Disprezzato, rifiutato dell’umanità, uomo dei dolori, assuefatto alla sofferenza, come uno davanti al quale ci si copre il volto, disprezzato, così che non lo abbiamo stimato» (Is 53,2-3).

L’esperienza della bellezza porta con sé la sua capacità di alludere ad una ricerca che sollecita a trascendere i limiti della ragione logica, conoscitiva e strumentale, perché l’esperienza del contatto con il bello può avviare alla ricerca del senso della verità.

La «bellezza» si profila allora come via da percorrere per educare alla vita spirituale, per portare a compimento anche la formazione della propria sensibilità spirituale. Significa riconoscere, così come ci ha insegnato Giovanni Paolo II,[3] il bello come «cifra» del divino, per saper riconoscere nella realtà quel logos e quei legami essenziali che uniscono gli esseri e le cose, quel legame unitario che intercorre tra le cose e la presenza di Dio.

La bellezza con la sua capacità di trascendere i limiti di ciò che si può spiegare solo con la ragione, mette in contatto con gli aspetti più profondi dell’esperienza, con il destino ultimo e con la verità.[4] In questa direzione la ricerca del bello non è soltanto questione estetica, ma diviene questione etica e spirituale da coniugare con i grandi temi del bene, del vero e del giusto, come possibilità di raggiungere una più ampia umanizzazione e una migliore umanità. 

Una dimensione spirituale

Bellezza e meraviglia si accompagnano all’interno della formazione spirituale della persona.

La meraviglia è come l’opposto di quell’atteggiamento passivo col quale ci poniamo nei confronti della realtà in stato di rispecchiamento, come se volessimo limitarci soltanto a riprodurre e copiare ciò che vediamo. La meraviglia, al contrario, come evidenziava il filosofo Stefanini «è urto, choc, scomposizione provvisoria d’un ordine che vuole essere ristabilito energicamente, con una riscossa dell’interno».[5] Ciò che fa la differenza nelle cose che vediamo, osserviamo e che ci colpiscono per la loro bellezza, sta nella particolarità del tipo di contatto che esse suscitano, in quanto non si tratta di una semplice immagine che si imprime a livello della nostra vista, non si tratta di osservare e registrare soltanto la presenza di qualcosa fuori di noi. Quello di cui facciamo esperienza vale come bello per noi quando è in grado di illuminarci dentro, quando è in grado di suscitare un processo che a sua volta genera qualcosa d’altro, che in definitiva lancia una provocazione alla nostra personalità. Si tratta in tal caso di una «provocazione» sui generis, atta a determinare un riflesso su di noi, a suscitare una reazione energica che procede dall’interno.[6]

L’educazione non può ridursi a routine, né può uniformare le originalità personali che emergono dinanzi a noi e che chiedono di essere riconosciute e rispettate. Omologare e rendere uniforme le nostre relazioni con i ragazzi o per mancanza di tempi e di spazi adeguati, o per incapacità a metterci in gioco accogliendo anche i rischi che i percorsi educativi prendano direzioni diverse da quelle che avevamo preventivato, o perché siamo presi dal pensare di non poter fare altrimenti, impoverisce l’evento educativo che si alimenta soprattutto di differenza, di scostamenti, di disomogeneità, di differenziazioni e, anche, di provocazioni:

«… l’educazione tanto più si avvicina al conseguimento del suo ideale, quanto più validamente sostituisce al ‘sapere trasmesso’ il ‘sapere provocato’ come acquisto personale dall’allievo. Si potrebbe dimostrare che la vita spirituale prospera nella sua autonomia quanto più è disposta a sentire l’aggressività delle forze fecondatrici. […] Vale ad ampliare il respiro dell’anima tutto ciò che, anzi tutto, si mette in crisi: voce delle cose, voce degli uomini, voce di Dio».[7]

Nella storia della spiritualità cristiana è presente una vera e propria via del bello come «via pulchritudinis» perché la bellezza da sempre ha espresso un’esperienza fatta di virtù estetica e virtù etica. La via pulchritudinis è espressione di una sintesi fra bello e vero soprattutto quando l’uomo compie quel percorso di perfezionamento e di affinamento spirituale che lo porta a cogliere come la bellezza sia un «coinvolgimento» nella meraviglia e nella rivelazione del creato, espressione dell’incontro che l’uomo fa con Dio.

La dimensione del bello, evidenzia P. Sequeri, sin dall’antica tradizione cristiana del magistero patristico e della grande letteratura teologica, è stata strettamente intrecciata con il sentimento di fede, con la contemplazione religiosa e la sensibilità spirituale.[8]

Si pensi per esempio alla «teologia della bellezza» di origine agostiniana e di tradizione neo-platonica. Il tema estetico nel suo significato più ampio e comprensivo ha richiami storici antichi strettamente connessi con l’esperienza religiosa soprattutto per quanto attiene la sottolineatura del rapporto dell’uomo con la Verità, con il Bene, con connotazioni fortemente metafisiche. Nel tempo, con il pensiero moderno e con l’affermazione del soggetto, il bello è andato progressivamente staccandosi dal suo legame con la sfera del religioso, per investire soprattutto il rapporto che intercorre tra arte e creatività personale. Di conseguenza viene affermata l’esigenza di riconoscere autonomia all’esperienza estetica, mentre si mira ad individuare in essa «il punto più alto della coscienza: dove cioè i valori ideali della vita e il senso stesso dell’esperienza religiosa vengono raggiunti: oltre i limiti in cui è costretta la ragione analitica e discorsiva».[9]

Ai nostri giorni, fa notare P. Sequeri, si assiste ad un ritrovato interesse da parte della teologia per la cultura dell’estetico: 

«[…] l’interesse per il profilo alto e per la profondità antropologica della dimensione estetica sembra ritornato di gran moda. La dimensione dell’esperienza sembra infatti aver conquistato la sua portata più globale. Non è soltanto un fatto di belle arti, ma di cultura in una accezione più ampia: si è allentato il suo riferimento paradigmatico all’eccellenza dell’opera assoluta».[10] 

Se l’uomo moderno si profila più che altro come uomo razionale e tecnico, l’uomo post-moderno sembra configurarsi come un individuo sentimentale e ludico. Si tratta di un soggetto che segue le ragioni del cuore, e tende ad interpretare tutto in maniera simbolica. Questi aspetti fanno registrare una diffusa e ampia estetizzazione dell’esistenza, nel senso che l’estetico tende ad essere vissuto più che altro come una sorta di consumo sentimentale secondo il registro delle emozioni e dei sentimenti, anche se l’esperienza estetica non si riduce agli aspetti puramente ludici ed edonistici, ma riveste una specifica valenza all’interno di una più ampia formazione della coscienza spirituale. 

Coltivare i percorsi dell’interiorità 

Il bello ci interpella nel senso di porci la domanda circa la giustificazione ultima delle cose. I simboli del bello alimentano il nostro immaginario, l’interiorità prende forma per l’uomo anche grazie alla mediazione simbolica del sensibile.[11]

È in questa direzione che dovrebbe situarsi il compito educativo di aiutare gli adolescenti a prestare attenzione alla propria vita interiore, a ricercare una vita interiore sempre più bella perché è proprio la categoria della «bellezza» che può essere individuata come modalità per accedere ad una propria vita spirituale. Gli adolescenti infatti hanno estremo bisogno di fare esperienza della bellezza di Dio, di sapersi orientare nel mondo per poter riconoscere la presenza divina negli innumerevoli volti e voci con le quali vengono a contatto. Alimentando questa capacità di saper riconoscere il bello, si alimenta parallelamente la possibilità che il loro sentimento religioso possa radicarsi nella fede, in esperienze belle di incontro personali con il Signore, in esperienze altrettanto belle di appartenenza e di condivisione con gli altri. 

Nel corso di un’esperienza a carattere laboratoriale che ha visto coinvolti soggetti educativi diversi interessati a mettere a confronto le proprie convinzioni intorno alla categoria del bello, un educatore evidenziava come esso possa emergere dall’interiorità dei ragazzi tutte le volte in cui vengono fornite loro «occasioni» per vivere e fare esperienza del bello: si pensi per esempio al valore rivestito dai momenti di incontro nel corso di un campo-scuola, ai ritrovi vissuti in contesti o ambienti naturali particolarmente suggestivi o che permettano di ritrovarsi di fronte a paesaggi di particolare bellezza.

Si tratta di esperienze non soltanto suggestive dal punto di vista dei sensi e delle percezioni, ma che si accompagnano effettivamente alla percezione di cosa possa essere la bellezza di Dio presente in ogni creatura, al desiderio e all’anelito profondo di senso e di realizzazione presente in ogni persona che può trovare risposta allorquando si pongano gli adolescenti nella condizione di affinare e di scoprire la bellezza della propria interiorità, della presenza di Dio oppure la bellezza di poter condividere un’esperienza speciale con altri.

I momenti dedicati alla preghiera e al silenzio, vissuti in contesti o in un’atmosfera particolarmente coinvolgente paiono essere quelli più sentiti per accedere al senso della bellezza come modalità per accrescere il proprio sentimento religioso. In momenti come questi è facile riscontrare come gli adolescenti appaiano sprovvisti di strumenti per potersi orientare, colti impreparati di fronte ad un’esperienza che li «afferra» dall’interno per condurli verso una componente della loro vita che gli è ancora sconosciuta. 

Sta agli educatori farsi promotori di percorsi di ricerca attraverso i quali l’adolescente possa come «navigare» attraverso la propria interiorità, alla conquista di una maturità interiore, di una pienezza di senso, pur destreggiandosi continuamente con l’inquietudine e il senso di solitudine esistenziale tipico non soltanto di questa età ma connaturata all’uomo stesso, con la noia esistenziale che rischia di bloccare la progettualità degli adolescenti.

Soltanto se essi vengono aiutati a prendere dimestichezza con i paesaggi della propria interiorità, possono diventare capaci di affrontare la realtà esterna e di essere in grado trasformarla e progettarla ricercando, seppur con difficoltà, quella continua armonia tra interno ed esterno, tra spirito e materia, tra sentimento e conoscenza, tra bisogni, desideri e anelito spirituale. 

[1] M. Benasayag G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004. [2] A. Chionna, L’educazione estetica: riflessioni e proposte; Edizioni Levante, Bari 1984, p. 9. [3] Giovanni Paolo II, Lettera del Papa Giovanni Paolo agli artisti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999. [4] Cf P. Sequeri, L’estro di Dio. Saggi di estetica, Glossa, Milano 2000, p. 59. [5] L. Stefanini, Educazione estetica e artistica: saggi e discorsi, La Scuola, Brescia 1954, p. 70. [6] A. Chionna, L’educazione estetica: riflessioni e proposte; Edizioni Levante, Bari 1984, p. 9. [7] Ibid., pp. 68-69. [8] Cf T. Manfredini, Comunicazione ed estetica in Sant’Agostino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995; U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Bompiani, Milano 1987. [9] P. Sequeri, L’estro di Dio, p. 66. [10] Ibi, p. 71. [11] Ibi.

Marisa Musaio

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