Se ci fosse Don Bosco...

«Insomma, alla Chiesa non possono bastare i giovani che partecipano ai grandi eventi, alle giornate mondiali. Giovanni Paolo II aveva un grande fascino sui giovani più sensibili alla proposta di fede. E gli altri? Io credo che la pastorale giovanile debba essere profondamente rinnovata per raggiungere un ambito più ampio...»

Se ci fosse Don Bosco...

da Rettor Maggiore

del 29 febbraio 2008

   La vecchia bussola si è rotta. E il patto tra le generazioni sembra essere saltato. Gli anziani premono, la famiglia si trasforma e cresce una 'questione giovanile'. Per gli educatori gli ultimi decenni sono stati assai faticosi. E anche per la Chiesa, perché il contesto sociale muta più rapidamente che in passato e i giovani a volte vengono considerati un peso, concorrenti pericolosi, intolleranti, insopportabili, opportunisti, senza più gli ideali di un tempo. Per i giovani si allestiscono grandi feste, ma con difficoltà ci si attrezza per ascoltarli. Si coglie un po’ di nostalgia: c’era una volta la pastorale giovanile.

   E adesso, dove siamo finiti? Abbiamo posto la domanda a un prete, ma non uno qualsiasi. Don Pascual Chávez Villanueva è il nono successore di don Bosco, Rettore Maggiore dei circa 16.000 Salesiani del mondo. Con i giovani don Bosco sottoscrisse un patto oltre 150 anni fa, al punto che all’alba della sua congregazione al Capitolo partecipavano non solo i preti e gli educatori, ma anche i giovani dell’oratorio. Diceva: «Amateli, i ragazzi. Si otterrà di più».

   Nei prossimi giorni, 233 salesiani provenienti da tutto il mondo si incontreranno a Roma per fare il punto sulla missione e le grandi intuizioni di don Bosco circa la pastorale giovanile.

Don Pascual, qual è la situazione oggi nel rapporto tra adulti e giovani?

«Ci si dibatte tra autoritarismo, che rischia di non influire pur ottenendo a volte risultati formali e assenza di proposte, invadenza, che non lascia spazio alla loro libertà di espressione, e latitanza educativa, cioè il disimpegno sulla trasmissione dei valori. Spesso negli adulti prevale la scelta del cameratismo, non quella della responsabilità».

Nella lettera che ha affidato a tutti i salesiani del mondo a Natale, lei parla di forme di oppressione alle quali sono sottoposti i giovani di tutto il mondo. Cosa vuol dire?

«Nei Paesi più sviluppati, l’oppressione è la mancanza della formazione critica. Il mercato vuole giovani consumatori, non protagonisti. La precarietà come ideologia dello sviluppo economico rende i giovani vulnerabili alla manipolazione. In questo modo non si impongono soltanto prodotti, ma anche modelli precisi: il tipo d’uomo, di donna, l’idea di bellezza e di felicità, la scala dei valori, le forme di comportamento. Si frammentano i contenuti, si vive di pillole, anche a livello mentale. Lo slogan è il modello di ogni messaggio, la complessità fa paura. Nei Paesi poveri i giovani non hanno diritti, devono lottare per sopravvivere, imparano cinismo e violenza. In entrambi i casi, oggi ai giovani è impedito di diventare una risorsa. Così diventano un problema».

La Chiesa ha responsabilità?

«Se la pastorale giovanile si occupa solo della formazione religiosa dei giovani e non dell’educazione globale, rischia di fallire. Non ci possiamo accontentare di una minoranza che approfondisce e matura l’esperienza ecclesiale e la esprime nella fede e nell’impegno sociale. Rimane un gran numero di giovani che dopo gli anni di catechismo si allontanano dalla fede senza rimpianto. Insomma, alla Chiesa non possono bastare i giovani che partecipano ai grandi eventi, alle Giornate mondiali. Giovanni Paolo II aveva un grande fascino sui giovani più sensibili alla proposta di fede. E gli altri? Io credo che la pastorale giovanile debba essere profondamente rinnovata per raggiungere un ambito più ampio».

In che modo?

«Intanto, bisogna rendersi conto che l’età della formazione religiosa si è allungata, non può più fermarsi alla Cresima; invece, non sempre essa conta su proposte che la ricoprano integralmente. Bisogna poi vedere la qualità delle proposte. Oggi si tinge la fede di un forte soggettivismo. Se si cura solo la salvezza della propria anima, la fede diventa fragile, assomiglia a un bene di consumo, di cui ciascuno fa l’uso che preferisce. Manca il coinvolgimento della fede nella storia, nella trasformazione sociale. I gruppi giovanili nelle parrocchie si impegnano molto nella propria formazione, ma non ritengono più un bene la militanza sociale e politica, faticano ad avere uno sguardo ampio sulla società. Le parrocchie, invece, dovrebbero fare tre cose: osservare la realtà, analizzare i fenomeni sociali e le cause, e reagire trovando risposte evangeliche che illuminino la mente, riscaldino il cuore e impegnino tutta la persona».

Chi sbaglia?

«In molti casi i preti. Hanno difficoltà di comunicazione, non imparano il linguaggio dei giovani. Parliamo tanto di inculturazione della fede in Africa e in America latina o in Asia, e poi ci dimentichiamo della cultura giovanile qui da noi. Così assistiamo all’allontanamento dei giovani dalle parrocchie, perché disturbano. Sono pochi i preti che si trovano bene in mezzo ai giovani. Per don Bosco era esattamente il contrario. Ma l’allontanamento fisico è l’ultimo atto dell’estraniamento culturale. Dei giovani non si capiscono il linguaggio, la musica, i segni, e si finisce per non amarli. Invece, educatori si viene nominati segretamente dai giovani se si riesce ad avere accesso alla loro intelligenza e al loro cuore».

Serve ancora l’oratorio?

«Sì, ma non bastano più due stanze, un calcio-balilla e un campo di calcio. Bisogna esplorare linguaggi e territori nuovi, anche virtuali. Un prete dei giovani non può evitare di tenere anche una mano sul mouse. Un prete che sia anche educatore deve possedere tutte le armi per combattere il relativismo che impone ai giovani di vivere solo il presente, senza memoria del passato e senza sogni per il futuro».

Voi lanciate un appello all’inizio del vostro Capitolo: «Salviamo i giovani prima che sia troppo tardi». Non le sembra di esagerare?

«No. Uno dei problemi della nostra società è l’insufficienza del servizio educativo. Non arriva a tutti e perde molti per strada. Soffre chi parte svantaggiato e chi non riesce a tenere il passo. Ma per contenere questo fenomeno occorrono un nuovo patto educativo, una responsabilità corale e una sinergia tra le famiglie, la politica, le forze sociali, la scuola e la Chiesa. Don Bosco a suo tempo andò molto spesso oltre legislazioni e prassi. Spezzò molti orizzonti culturali consolidati. Ma quello che fece era frutto di una vocazione, di autorevolezza e insieme di amore. I giovani gli sono andati dietro. Oggi forse la situazione non è diversa e le esigenze sicuramente uguali. Occorre mettere a frutto le energie disponibili, favorire vocazioni e appoggiare progetti di servizio. Ma soprattutto, bisogna credere nei giovani, non pensare che siano ospiti inquietanti della nostra società e della nostra Chiesa».

 

Tratto da Famiglia Cristiana

Alberto Bobbio

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