Maurizio e Marina aspettano una bambina. Quando viene alla luce nel marzo del 1989 scoprono che è affetta dalla sindrome di Down. I medici non li avevano informati di questo, altrimenti avrebbero deciso di abortire. Si risolvono di chiedere i danni e, dopo corsi e ricorsi, ieri la Cassazione ha dato ragione alla coppia.
del 07 dicembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          La storia che riportiamo qui di seguito è emblematica della barbarie in cui sta precipitando la nostra società. In estrema sintesi, la Cassazione ha condannato l'Università La Sapienza a risarcire una coppia perché un esame non aveva scoperto che il loro bambino sarebbe nato down. Doppio risarcimento: patrimoniale per i soldi spesi nell'assistenza di questo bambino e morale per la sofferenza di avere un figlio handicappato.
           Maurizio e Marina aspettano una bambina. Quando viene alla luce nel marzo del 1989 scoprono che è affetta dalla sindrome di Down. I medici non li avevano informati di questo, altrimenti avrebbero deciso di abortire. Si risolvono di chiedere i danni e, dopo corsi e ricorsi, ieri, primo dicembre, la Cassazione ha dato ragione alla coppia. La sentenza stabilisce che l’Università La Sapienza di Roma, a cui fa capo la clinica ove si sono rivolti i coniugi, deve risarcire loro i danni perché “non aveva informato la gestante della oggettiva inaffidabilità dell’esito della funicolocentesi e quindi sulla necessità di ripetere l’esame entro e non oltre la 24esima settimana”, termine massimo, secondo i giudici, per poter abortire. Trattasi in buona sostanza di risarcibilità da wrongful birth, da nascita sbagliata.            Quali beni sono stati lesi dalla mancata e corretta informazione sullo stato di salute del nascituro? La salute psichica della donna, la serenità di vita e i beni patrimoniali. Il danno che colpisce il primo di questi beni si chiama “danno biologico” (Cass. sez. I civ. 10.01.2000/07.01.2000 n. 7713; Cass. Civ. 8.07.1994) e si sostanzia nel trauma psicologico di mettere al mondo un figlio non voluto. Il danno esistenziale invece va ad intaccare il benessere morale della coppia dato che per tutta la vita dovranno prendersi cura di lui, saranno obbligati ad affrontare preoccupazioni che altri genitori di figli normodotati non dovranno affrontare, saranno costretti a superare ansie legate alla condizione particolare della loro figlia, etc. (Corte d'Appello di Cagliari del 12 novembre 1998). L’ultimo bene sacrificato è quello patrimoniale: pensiamo a tutte le spese per l’educazione e la crescita di un figlio non voluto e affetto da un grave handicap fisico e mentale (Tribunale di Cagliari 23.5.1995; App. Bologna 19.12.1991; Tribunale di Verona 15.10.1990). C’è chi si spinge a dire che questi costi sono un vero e proprio danno emergente, cioè una perdita subita in termini economici, come quando qualcuno ti tampona l’auto (Tribunale di Cagliari del 3.2.1995). Sul danno patrimoniale la sentenza di ieri fa cenno alla “gravità del sacrificio personale e la permanenza dell’assistenza di una persona che abbisogna di continue cure, sorveglianza ed affetto”.
          A questi beni pare che la recente sentenza della Cassazione ne abbia aggiunto un altro: il bene dell’autodeterminazione, della libertà personale. Infatti gli ermellini scrivono che la madre ha il diritto di “poter decidere liberamente, anche attraverso un’adeguata informazione sanitaria, la scelta dell’aborto terapeutico o di rischiare una nascita a rischio genetico” (così anche Cass .Civ. 1.12.1998 n. 12195; Cass. Civ., III Sezione, 24.03.1999, n. 2793; Trib. Bergamo, 2 novembre 1995)          Alla luce della disciplina prevista dalla legge 194 questa sentenza è illegittima? No, dato che la natura del rapporto tra ospedale e gestante previsto dalla 194 è di natura contrattuale, così me tiene a precisare la recente sentenza dalla Cassazione: “la responsabilità dell’Università è di natura contrattuale” (stesso parere in Cassazione 8.7.1994 n. 6494, Cg. 1995, 91; Cassazione 10.5.2002 n. 6735; Trib. Cagliari, 23 febbraio 1995). Qui le questioni di morale, a sentir i giudici, non c’entrano nulla. Qui la vicenda è semplice: si tratta solo ottemperare ad alcuni oneri contrattuali. E come in ogni contratto che si rispetti colui che fornisce un servizio deve debitamente informare l’altro contraente di ogni particolare che riguarda il contratto stesso, compresi ovviamente i rischi. Se non lo fa viene meno ad un suo obbligo giuridico e deve risarcire i danni. Dunque la sentenza è in linea con quanto prevede la legge.          Qualche riflessione a margine. La prima: il nascere, ci dicono i giudici non è sempre un bene. Dipende se sei sano: i down di per se sono un danno da risarcire. Se poi i genitori si comportano da eroi e chiudono un occhio allora non chiederanno i danni, ma avrebbero tutto il diritto di farlo dato che le persone down sono oggettivamente una lesione alla sfera patrimoniale, fisica e morale dei genitori. Altrimenti perché sarebbe permesso alla donna abortire un bambino down? L’eugenetica dunque assurge a rango di categoria giuridica.           Qualcuno obietterà: i giudici applicano male la 194 che di suo non è eugenetica. Ciò è falso. Secondo la 194 la donna che va dal medico e dice: “Non voglio questo bambino perché è malformato” non può abortire. Ma la donna che dice: “Non voglio questo bambino malformato perché per me sarà un peso” può abortire. E’ chiaro che è una sottigliezza di lana caprina: per la 194 la malformazione può essere motivo di legittimo aborto solo se incide sulla salute psico-fisica della donna. La giurisprudenza, sempre della Cassazione, a questo proposito rammenta che 'la sola esistenza di malformazioni del feto, che non incidano sulla salute o sulla vita della donna, non permettono alla gestante di praticare l'aborto' (Cassazione Civile, sez. III, 14 luglio 2006, n. 16123; Cassazione civile, sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488). Tra parentesi invece noi vogliamo ricordare che sta solo alla donna decidere se tale malformazione inciderà sulla sua salute, non al medico. La questione è di lana caprina dato che tutti coloro che non vogliono un figlio malato non lo vogliono perché pensano che possa recare un danno al proprio benessere.            La 194 è una legge perfettamente eugenetica – dal greco eu (bene) e gignomai (nasco) - perché in ultima istanza permette di eliminare i figli imperfetti – o che potrebbero esserlo – cioè i figli che “non nasceranno bene”. La lesione sulla salute della donna – che tra l’altro può essere solo presunta e non accertata - non è la vera causa che spinge la donna ad abortire bensì è l’effetto della consapevolezza che il proprio figlio potrà avere un handicap. Questo è il vero motivo. Un motivo squisitamente eugenetico.           Il riferimento alla salute della donna è invece centrale per la giurisprudenza italiana. La Cassazione nel 2004 respinse un ricorso di una coppia che chiese il risarcimento a nome della figlia nata handicappata. I giudici sostennero che non è configurabile in capo al nascituro alcun 'diritto a non nascere' o a 'nascere sano' (è il tema della wrongful life, le vite sbagliate). Se la coppia avesse chiesto i danni perché l’omessa informazione sull’handicap della figlia che stava per nascere avrebbe leso la salute della donna, avrebbe avuto il risarcimento. Ma chiedere a nome della figlia i danni perché la figlia stessa era infelice in quella condizione di vita è inutile. Le eventuali patologie o disabilità rilevano esclusivamente nella misura in cui possano arrecare un danno alla salute della donna. Insomma nella prospettiva perversa della 194 il bambino malformato non conta davvero nulla. Il figlio con handicap non può chiedere il risarcimento perché l’unica alternativa per non subire questi danni sarebbe stato non nascere. La qual cosa è contraddittoria.            In capo al figlio si può predicare solo un diritto a nascere, pur se con malformazioni o patologie (Cassazione civile, sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488). Però è un diritto che vale poco o niente per due ragioni. Chi può far valere questo diritto? Cioè chi può renderlo effettivo? La donna. E’ in mano sua il potere di vita e di morte sul nascituro. Quindi il diritto alla vita da diritto indisponibile scolora in diritto disponibile, a disposizione della madre. In secondo luogo sul diritto alla vita del bambino prevale il diritto alla salute della donna (Corte Cost. n. 27/75; Tribunale di Verona del 15.10.1990). Il bilanciamento degli interessi in gioco è in mano ancora una volta alla donna: il piatto della bilancia può pendere da una parte o dall’altra a seconda dell’arbitrio della donna, non limitato da nessuna prescrizione normativa. Tra parentesi ricordiamo che in realtà il bene “vita” e il bene “salute' non sono tra loro bilanciabili, perché il primo pesa oggettivamente di più che il secondo.             La sentenza di ieri della Cassazione, al pari di altre che l’hanno proceduta, poi potrà portare in futuro a situazioni paradossali. Infatti in modo analogo tutti i genitori, anche con figli normodotati, potranno chiedere a questi una volta divenuti maggiorenni il risarcimento per le spese sostenute e per i dispiaceri che magari avranno dato loro (brutti voti a scuola, litigi a casa, uso di droghe...). Quello che cambia è il soggetto chiamato a rifondere i danni. Non più il medico dato che questo non potrà prevedere simili comportamenti (ma un giorno con la lettura perfetta del genoma forse arriveremo anche a questo), ma il figlio stesso. E così anche la relazione tra genitori e figli sarà svilita ad un mero rapporto contrattuale.  Tommaso Scandroglio
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