A che serve oggi la poesia? Ha ancora senso studiarla, amarla, imparare i versi a memoria? Essa è un optional nella vita dell'uomo o è imprescindibile?
del 21 marzo 2011
 
 
          A che serve oggi la poesia? Ha ancora senso studiarla, amarla, imparare i versi a memoria? Essa è un optional nella vita dell’uomo o è imprescindibile? Sono interrogativi a cui è lecito dare una risposta. Ieri abbiamo anche celebrato la Giornata mondiale della poesia.
          Due secoli or sono Foscolo costruisce un intero carme sulla bellezza della poesia e sull’efficacia che essa ha nell’eternare i nomi dei grandi. Nei Sepolcri con forza icastica Foscolo rappresenta le Pimplee (ovvero le muse, cioè la poesia) vincere sul tempo e sulla dimenticanza che ogni cosa avvolge:
E quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplee fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
          Ma sempre Foscolo nelle Grazie avverte che la poesia, ma più in generale l’arte, è a rischio di estinzione, la bellezza non è più salvaguardata e viene confusa con la rozzezza e la volgarità. Infatti, le grazie, esseri intermediari tra gli dei immortali e noi esseri umani, con il compito di portare l’uomo da una condizione ferina a una condizione più ingentilita e più compiuta, sono in pericolo e sono costrette a fuggire in Atlantide, dove viene intessuto un velo per proteggerle. La scomparsa della poesia e l’incapacità di apprezzarla, avverte Foscolo, sono per qualsiasi civiltà un campanello di allarme per una possibile distruzione dell’umanità, che può ritornare alla condizione primitiva.
          La poesia rischia di scomparire, non tanto perché non ci siano più poeti, ma perché sono sempre meno i fruitori in grado di apprezzarla in un’epoca in cui morte, oscenità, bruttezza, abnorme uso della sessualità sembrano aver sostituito desiderio di vita, sacralità, bellezza e tenerezza amorosa. Nella contemporaneità sembra essersi avverata la profezia delle streghe che all’inizio del Macbeth esclamano «il bello è brutto e il brutto è bello». Si è affermata la tirannia del brutto proprio nei campi artistici che per eccellenza consacravano il trionfo della bellezza.
          Eppure le parole che Dostoevskij scrive ne I demoni nel 1871, quando i segnali della modernità sono già ben marcati, ci dovrebbero far riflettere: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in alto dello spirito popolare, […], più in alto della giovane generazione, più in alto della chimica, quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere...».
          Due anni prima, Dostoevskij afferma nell’Idiota che «il mondo sarà salvato dalla bellezza». Nella Lettera agli artisti (1999) Giovanni Paolo II spiega che «la bellezza salverà il mondo» perché infonderà sempre quello stupore e trasmetterà quell’entusiasmo che permetteranno di rialzarsi e di ripartire. Rivolgendosi ancora agli artisti nel 2009 Benedetto XVI scrive che «speranza è vera figlia di bellezza». Dedicando a Cangrande della Scala Il Paradiso Dante dichiara che il fine della sua opera è addirittura quello di «rimuovere gli uomini, finché sono ancora su questa terra, dalla condizione di peccato e infelicità per accompagnarli a quella della felicità e beatitudine». Grande presunzione, quella del Fiorentino, giustificabile solo per la convinzione che il merito di questa salvezza offerta agli uomini non è suo, ma proviene da Colui che «move il sole e l’altre stelle».
          Insomma, se da un lato Dante non farebbe altro che annotare nella memoria quanto accaduto e visto e, poi, trascrivere, dall’altro il talento artistico che lui possiede proviene da Dio e deve essere messo al servizio della verità e del bene dell’umanità. Leopardi arriverà ad affermare nella canzone «Alla sua donna» che, se l’uomo incontrasse la bellezza e la amasse, la sua vita sarebbe come quella che «nel cielo india», ovvero un Paradiso in Terra, e lui perseguirebbe ancora la virtù, cioè la sua vita sarebbe più piena d’amore. Sia Dante che Leopardi parlano di uno stretto rapporto tra bellezza, felicità, bontà. Nello splendido film “Le vite degli altri” un personaggio si chiede: “Come si fa ad essere cattivi dopo aver sentito una musica così bella?”.
          La bellezza vera cambia, educa, muove. Il bello provoca stupore e contemplazione, ma, al contempo, impeto e ardore di conoscenza. Il bello porta a spalancarsi di fronte al mistero del reale, come scrive Montale «Tutte le cose portano scritto più in là».
          La poesia, così come ogni altra espressione artistica, ha sempre un intimo rapporto con la realtà. Nel I atto dell’Amleto il protagonista afferma: «Ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia, Orazio». La realtà è più ricca di ogni fantasia e l’arte partirà, in un modo o nell’altro, sempre dalla sua osservazione. Lo stesso Dante apre il Paradiso scrivendo:
La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte pi√π e meno altrove.
          Per Dante l’uomo deve guardare la bellezza e la gloria del creato. Il verbo «guardare» e la parola «sguardo» sono fra i termini più presenti nella Commedia. Una visione simile ha Manzoni che nel De inventione afferma che il poeta non inventa mai nulla, ma trova nel reale le impronte e le orme di Dio, si sorprende e l’arte scaturisce da questa meraviglia.
          La grande poesia, anche quando non scaturisce da un’esperienza religiosa in senso stretto (come quella di Dante), è, comunque, esito e prodotto di quella potente domanda che risiede nel cuore dell’uomo e che si spalanca alla realtà con un anelito fortissimo di bellezza, di amore e di felicità. Per questo il poeta legge nel reale il segno di qualcosa che sta oltre, coglie la provocazione e la sollecitazione che la realtà è per lui. In questo senso la poesia è sempre religiosa o «metafisica» come la definirà T. S. Elliot, perché ci interroga sul Mistero e risollecita ogni volta la profondità del cuore dell’uomo.
          Nell’epoca contemporanea, in cui la percezione religiosa dell’uomo è sempre più affievolita, vari sono i tentativi di affrancare l’estetica da una dimensione integrale dell’uomo. Si fa così strada la tentazione di un’estetica puramente edonistica nella convinzione che dalla lettura così come dalla fruizione di qualsiasi opera d’arte conti solo il godimento del piacere. Oggi l’espansione dell’acculturamento di massa non ha portato ad una diffusione, ma a una commercializzazione e a una massificazione della cultura stessa. D’altronde, già Leopardi nello Zibaldone profetizzava la diffusione di due canali culturali-artistici: quello della vera arte, destinata ad essere compresa da un numero sempre più ridotto di persone, e quello dell’opera grezza, dozzinale e commerciale, per tutti, non più vera arte.
          Sorge allora la domanda se la lettura sia per il puro godimento o la piacevolezza sia solo un tramite e uno strumento perché si possa guadagnare qualcosa in termini di utilità. Manzoni non ha dubbi al riguardo scrivendo nella Lettera sul Romanticismo che «la poesia deve avere il vero per oggetto, l’utile per iscopo, l’interessante per mezzo».
          Comunque, non dimentichiamoci mai quanto scrive san Giustino, martire e filosofo: «Tutto il bello ci interessa. Il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua totalità. Ne consegue che tutto ciò che di bello è stato espresso da chiunque appartiene a noi cristiani». Ma tutte le cose hanno una loro intima bellezza, un’impronta di Dio, come sostiene san Tommaso e come scrive Dante nel Paradiso:
Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
          Per questo san Paolo scrive: «Vagliate tutto, ma trattenete quello che è buono». È con questa certezza che vogliamo ripartire nella lettura della grande poesia che è tale perché esprime un cuore in ricerca della verità, un cuore che palpita, che soffre, cha ama, che desidera l’eternità. Per questo l’avventura dello studio della poesia è affascinante perché è l’incontro con un uomo che ha saputo esprimere le sue domande e raccontare la sua esperienza.
          La scuola di oggi ha il torto di aver troppe volte spento questo fascino. Troppe volte la poesia è stata ridotta ad un laboratorio di analisi, di esercizio retorico o stilistico dove si assecondano le mode letterarie del momento a scapito della letteratura e della poesia stessa. La poesia è viva solo se ci sono degli uomini vivi che palpitano, che domandano, che sperano, che vivono l’avventura della lettura come l’esperienza dell’incontro con qualcuno. Negli ultimi decenni si è spesso parlato della centralità del testo.
          Oggi vogliamo ritornare alla centralità dell’io e del cuore. Solo così, forse, usciremo dagli schemi preconfezionati delle antologie scolastiche secondo i quali gli autori sono ridotti ad alcune parole chiave, a giudizi critici che definiscono (cioè riducono) piuttosto che spalancare al mistero della bellezza dell’arte.
 
Giovanni Fighera
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