Mostrare che la felicità desiderata dal cuore umano ha un solo nome, quello di Gesù. Ecco il metodo della nuova evangelizzazione che ha suggerito il Papa. Tanti, pur avendo già sentito parlare della fede, non apprezzano, non conoscono più la bellezza del Cristianesimo, anzi, talvolta lo ritengono addirittura un ostacolo per raggiungere la felicità.
del 26 luglio 2011
 
          Mostrare che la felicità desiderata dal cuore umano ha un solo nome, quello di Gesù. Ecco il metodo della nuova evangelizzazione che il Papa ha suggerito il 13 giugno scorso, inaugurando il convegno ecclesiale della diocesi di Roma. Ha voluto riferirsi, per questo, a uno dei padri della Chiesa, sant’Ilario di Poitiers. Secondo la sua stessa testimonianza, Ilario divenne credente nel momento in cui comprese che per una vita veramente felice erano insufficienti sia il possesso, sia il tranquillo godimento delle cose. Qualcosa di più importante e prezioso lo attraeva: la conoscenza della verità e la pienezza dell’amore donati da Cristo (cfr. De Trinitate 1, 2).
          «Non dobbiamo anche noi oggi — si è chiesto pertanto Benedetto XVI — mostrare la bellezza e la ragionevolezza della fede, portare la luce di Dio all’uomo del nostro tempo, con coraggio, con convinzione, con gioia?».
          Mostrare la «ragionevolezza della fede». Ecco uno dei temi ricorrenti nel magistero di Joseph Ratzinger, il quale già nel 2003 aveva annotato con coraggio: «Deve addirittura apparire un miracolo che nonostante tutto si continui a credere cristianamente». Al tempo stesso, egli si rendeva conto che la fede aveva ancora una possibilità di successo ai nostri giorni. Come mai? Per l’intima ragionevolezza della verità cristiana, cioè per la sua corrispondenza al cuore dell’uomo: «Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere» (Joseph Ratzinger, Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 143).
          Mostrare la ragionevolezza della verità della fede, e non soltanto dell’atto del credere, è un’arte alla quale siamo stati poco adusati. Secondo un certo metodo apologetico, le ragioni per aderire alla rivelazione cristiana sono fondate soprattutto sull’argomento dell’autorità divina che rivela e non sulla corrispondenza alla ragione della verità rivelata. Si tende, così, in forza di una sottolineatura eccessiva del suo carattere soprannaturale, a concepire tale verità come priva di qualsiasi forma di evidenza di fronte alla ragione dell’uomo; per lo meno, non è questa evidenza che innanzitutto viene cercata. In una simile prospettiva, infatti, tutte le energie della ragione sono convogliate nell’accertamento fattuale della rivelazione di Dio. Agli argomenti desunti dalla corrispondenza della religione cattolica alle aspirazioni del cuore umano non si accorda un valore apodittico, semmai di conferma.
          E così può accadere — ha detto il Papa al convegno della diocesi di Roma citando anche Giovanni Paolo II e la sua insistenza sulla necessità di una nuova evangelizzazione — che tanti, «pur avendo già sentito parlare della fede, non apprezzano, non conoscono più la bellezza del Cristianesimo, anzi, talvolta lo ritengono addirittura un ostacolo per raggiungere la felicità». Si consuma una scissione tra la verità cristiana e la soddisfazione del cuore, come se la felicità potesse risiedere altrove, in qualcosa che l’uomo è in grado di darsi da sé. Da qui gli idoli con i quali essa è stata sostituita: la lussuria, l’avarizia e il potere, i nuovi dei di cui parlava Thomas S. Eliot nei Cori della Rocca. L’itinerario alla fede proposto da Benedetto XVI si radica invece su una più antica tradizione ecclesiale. Secondo il pensiero di Agostino e di Tommaso d’Aquino, infatti, l’uomo è «fatto per Dio» e pertanto reca in sé questa paradossale situazione storica, per la quale è destinato dalla sua natura a conseguire un fine, la vita eterna, che non può raggiungere con le proprie forze, ma solo in virtù della grazia (cfr. Summa Theologiae, i-ii, 114, 2, ad 1). È per questo che l’incontro con Cristo e la fede che ne consegue sono l’inizio della felicità eterna (cfr. De Veritate, i, 14, 2, c).
          Ecco la ragione dell’accorata insistenza del magistero di Benedetto XVI: «Perciò oggi desidero ripetere quanto dissi ai giovani nella Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia: “La felicità che cercate, la felicità che avete diritto di gustare ha un nome, un volto: quello di Gesù di Nazareth, nascosto nell’Eucaristia”!».
          Non esiste, infatti, evangelizzazione compiuta, se non quella che termina nel riconoscimento di Cristo, avvertito come la risposta a tutte le domande del nostro cuore e alle esigenze più profonde della nostra ragione.
 
Francesco Ventorino
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