Ma esistono ancora, oggi, ideali educativi a cui ispirarsi? C'è ancora la bussola che indica il bene comune? Ritrovarla è fondamentale, perché senza di essa diventa difficile ripensare una scuola che non concepisca l'uomo come semplice strumento di produzione.
del 28 luglio 2011
 
          Il rapporto 2010 dell’Ocse (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sull’istruzione ha confermato che in Italia i nostri ragazzi “scaldano” il banco ben 8.200 ore all’anno contro una media di 6.777 negli altri Paesi. E allora perché, se trascorrono a scuola così tanto tempo, gli studenti italiani sono più somari dei coetanei d’oltralpe? Insomma, c’è qualcosa che non va se nel nostro Paese si sta diffondendo l’analfabetismo di ritorno e circa il 4% dei giovani fra i 15 e i 19 anni (il 6% nel Sud Italia) non ha completato gli studi ed è privo di licenza media.
Adulti cercasi
          A farne le spese, nonostante la ricchezza di iniziative e progetti e gli sforzi delle scuole, sono soprattutto i ragazzi stranieri. I figli di immigrati sono i più a rischio di abbandono scolastico: aumentano di numero e hanno quindi bisogno di maggiori attenzioni, ma le risorse in Italia diminuiscono. Tutte le scuole ormai organizzano corsi di lingua italiana per i nuovi arrivati, ma nelle esperienze di fallimento scolastico emerge come la lingua sia discriminante anche per ragazzi capaci e con grandi ambizioni.L’integrazione passa anche attraverso il successo scolastico. L’istruzione è centrale nel percorso educativo, sebbene “formare”, “prendersi cura” della persona, “insegnare” non significhino semplicemente trasmettere nozioni, ma rendere ognuno in grado di esprimere i propri talenti e le proprie capacità per metterli al servizio di se stesso e degli altri.
          L’emergenza educativa sui cui la Conferenza episcopale italiana ha richiamato l’attenzione vede sempre più insegnanti e genitori che rinunciano a svolgere il loro ruolo di adulti significativi e credibili. Genitori troppo impegnati e “incasinati” affidano i propri figli alle cure di altri, mentre molti insegnanti si limitano a impartire lezioni di matematica o latino. Eppure, come ha sottolineato Benedetto XVI, “insegnare significa andare incontro a quel desiderio di conoscere e di capire che è insito nell’uomo e che nel bambino, nell’adolescente, nel giovane si manifesta in tutta la sua forza e spontaneità”.
Accendere un fuoco
          Ma esistono ancora, oggi, ideali educativi a cui ispirarsi? Immersi in una cultura scettica e soggettivistica, abbiamo ancora punti di riferimento condivisi? Insomma, c’è ancora la bussola che indica il bene comune? Ritrovarla è fondamentale, perché senza di essa diventa difficile ripensare una scuola che non concepisca l’uomo come semplice strumento di produzione, cui trasmettere competenze in funzione delle esigenze del mondo produttivo ed economico.
          Tanto più che oggi la scuola subisce la pesante concorrenza delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il cui sviluppo mette in discussione non solo il modo di imparare ma anche ciò che si impara. “La scuola – dice il prof. Giorgio Chiosso, docente di Pedagogia generale e Storia dell’Educazione all’Università di Torino - è sfidata da questi cambiamenti a ripensarsi o a declinare: la prospettiva è quella di diventare un luogo ove imparare a organizzare in modo personale il sapere, non solo ad assimilarlo. Una delle sfide più impegnative del nostro tempo (non solo educativa) riguarda infatti la capacità di accostare in modo razionale e cioè critico e personale (e non solo emotivo) l’enorme flusso di informazioni e di conoscenze nelle quali siamo immersi. Alla scuola si chiede di aiutare i ragazzi e i giovani a non vivere in un eterno presente, ma a cogliere il senso e le prospettive dei cambiamenti”.Se “educare non è riempire un canestro, ma accendere un fuoco”, come sostiene un docente universitario indiano, Sugata Mitra, resta il fatto che in Italia non si riesce a riempire neanche il canestro.
Non siamo contenitori
          Ritornando alla domanda iniziale, perché i nostri studenti sono somari nonostante le tante ore trascorse a scuola? Di risposte ce ne sono tante: lezioni poco attraenti e troppo tradizionali, mancanza di laboratori, insegnanti ignoranti o demotivati, eccessivo carico di lavoro… “Mio figlio va in seconda media, trascorre ogni giorno 6 ore a scuola e al pomeriggio deve studiare almeno 3-4 ore per riuscire a stare dietro a tutti compiti che gli danno: non ha il tempo di ripassare, di studiare con calma, di riflettere… Così dimentica tutto da un giorno all’altro”, lamenta Giovanna, mamma esasperata.“Il mio prof. di ragioneria entrava in classe e leggeva il giornale per tutta la lezione, quelli di geografia e di inglese non sapevano l'italiano, quella di italiano era incomprensibile, parlava un siciliano stretto…”, racconta Silvia. Mentre Paolo, 17 anni, liceo scientifico, ringrazia ancora il suo prof di matematica delle medie: “Ci faceva lavorare soprattutto in classe, non ci dava compiti a casa. Spiegava e rispiegava le cose, faceva esperimenti, ci portava in giro. Non seguiva il libro di testo. Io la matematica l’ho imparata bene, e non solo, perché con lui si affrontavano anche altri argomenti. Ecco, non ci considerava contenitori da riempire, ci rispettava, aveva a cuore i nostri problemi, ci ascoltava”.Un prof, quello di Paolo, più o meno come Luigi: “Io, insegnante, ho ascoltato i problemi dei miei alunni (problemi adolescenziali e per questo spesso gravi e pericolosi) cercando di rassicurali, consolarli, indirizzarli, ecc....
          E tutto ciò perché i miei alunni evidentemente vedono in me non solo l'insegnante di matematica che mette il 10 o il 4, ma una persona adulta della quale sentono di potersi fidare.La scuola è una cosa seria”. Già.
Patrizia Spagnolo
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