Sfida educativa alla politica

Due esponenti politici di primissimo piano, Walter Veltroni e Maurizio Sacconi, si confrontano con il problema dei giovani. Due riflessioni che analizzano la necessità di un cambiamento culturale nel Paese, nelle generazioni adulte come in quelle giovani, per ricostruire quel senso «del plurale di cui si compone ogni società».

Sfida educativa alla politica

da Attualità

del 27 gennaio 2011

 

           

           Due esponenti politici di primissimo piano – il primo segretario del Partito democratico Walter Veltroni e l’attuale ministro del Lavoro Maurizio Sacconi – si confrontano con il problema dei giovani, evidenziato in maniera particolare nella prolusione del cardinale Angelo Bagnasco al Consiglio permanente della Cei, in corso ad Ancona.   

           Due riflessioni che analizzano la necessità – oltre che di iniziative concrete – di un cambiamento culturale nel Paese, nelle generazioni adulte come in quelle giovani, per ricostruire quel senso «del plurale di cui si compone ogni società».

            Questo è il punto in cui i problemi dei giovani vengono a coincidere con le questioni di ordine generale: bisogna infrangere l’involucro individualista e tornare a pensare con la categoria comunitaria del “noi”, perché tutto va ricalibrato secondo un diverso soggetto. Anziché una somma di tanti “io”, sicuramente legittimi e forse un po’ pretenziosi, occorre insediare il plurale che abita in ogni famiglia, il plurale di cui si compone ogni società. Non sarà un’operazione facile, ma occorrerà convertire una parte di ciò che eravamo abituati a considerare nella nostra esclusiva disponibilità, e metterlo nella disponibilità di tutti.

  

Veltroni: «Riforma coraggiose per reinsediare il 'noi'»

          Quando prende la parola un’autorità morale, come quella rappresentata dalla Conferenza dei vescovi italiani, è bene che la politica ascolti. In una società aperta, nessuno dispone dell’ultima parola: tutte le voci, anche quelle che giungono dalle tribune più alte, sanno di doversi sottomettere alla critica del discorso pubblico. (...)

           Bene ha fatto il presidente della Cei a pronunciare parole chiare, nel descrivere una collettività nazionale che «guarda sgomenta gli attori della scena pubblica e respira un evidente disagio morale». E per aver voluto ricondurre questa denuncia non sul terreno della lotta politica, quasi la Chiesa dovesse prendere parte, fino a farsi essa stessa parte, nel confronto politico, privando così la società italiana dell’apporto di una preziosa 'terzietà', ma piuttosto su quello della riflessione e della proposta culturale e morale e, in definitiva, educativa. «Se si ingannano i giovani – ha detto il cardinale Bagnasco – se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale».

           Questo è il nocciolo della questione, che è una questione di 'senso': quale senso della vita, personale e comunitaria, quale gerarchia di valori le generazioni adulte, attraverso la politica, ma ancora di più attraverso l’intreccio, spesso perverso, tra la politica, il mercato e i mass-media, propongono alle giovani generazioni. (...)

          A partire da questo allarme sulla emergenza educativa, il cardinale Bagnasco ha proposto due riflessioni che la politica, io penso, dovrebbe raccogliere e trasformare in decisioni concrete. La prima ha a che fare con la famiglia, «quale base per rilanciare il Paese».

          Condivido le sue parole, che individuano lo stesso terreno di impegno concreto che abbiamo proposto sabato scorso al convegno del Lingotto: «L’individuazione del 'fattore famiglia' come criterio ad oggi più evoluto, in quanto più equilibrato rispetto ad ipotesi precedenti, suggerisce che l’auspicata, urgente riforma del fisco dispone già di un elemento centrale di grande convergenza».

          La seconda riguarda il sistema formativo e le contestazioni che lo hanno attraversato in occasione della riforma Gelmini. «La prospettiva del ridimensionamento di quello che ai giovani appare come il più consistente cespite di spesa che lo Stato stanzia in loro favore, deve essere apparsa incomprensibile», ha detto il presidente della Cei. Un monito dal quale dovremmo trarre l’impegno condiviso tra le forze politiche a sottrarre la scuola, l’università, la ricerca dal novero delle spese da ridimensionare. «Perché il sistema formativo deve diventare il centro della società del futuro», abbiamo detto al Lingotto. «Si deve spendere anche di più, ma si deve spendere meglio. Facendo leva sull’autonomia, il merito, la rigorosa valutazione dei risultati».

          E bisogna riuscire a fare tutto questo nel pieno di una crisi che colpisce allo stesso tempo la finanza pubblica e l’economia reale. Con parole per le quali provo una profonda sintonia, il presidente dei vescovi italiani osserva: «Questo è il punto in cui i problemi dei giovani vengono a coincidere con le questioni di ordine generale: bisogna infrangere l’involucro individualista e tornare a pensare con la categoria comunitaria del 'noi', perché tutto va ricalibrato secondo un diverso soggetto.

Walter Veltroni

 

Sacconi: Ricordiamo e vigiliamo. È elementare bisogno di civiltà

           L’Italia vive un paradosso profondo e diffuso: una situazione economica relativamente agiata, dove però i giovani non trovano un lavoro coerente con le loro aspirazioni e le imprese non trovano lavoratori con le competenze e le professionalità ricercate.

          Mai come ora è necessaria una rivoluzione culturale per ritornare a dare dignità al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, anche quelle manuali. Perché troppo spesso abbiamo dimenticato e sottovalutato la valenza educativa, culturale e formativa del lavoro: un lavoro fatto con passione, serenità, motivazione. Tale rinnovamento è ancor più ostico in una società dove «la desertificazione valoriale ha prosciugato l’aria e rarefatto il respiro», ma proprio per questo è necessaria.

Non è una sfida che riguarda i soli politici.

          Essa coinvolge tutti noi: gli attori sociali, le famiglie e, innanzi tutto, gli stessi giovani. Se infatti è vero che la nostra generazione ha verso di loro un «debito di futuro», è altrettanto vero che sta alla loro responsabilità coltivare i propri talenti e dare credito al proprio desiderio di incidere sulla realtà per cambiarla in meglio. Lo ha scritto il Papa nel suo messaggio per la prossima Giornata mondiale della gioventù: «La domanda di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. (…). È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare, di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande».

          Proprio in questi giorni, con i colleghi Gelmini e Meloni, si è avviato un monitoraggio relativo all’attuazione del Piano di azione per l’occupabilità dei giovani Italia 2020, per il quale sono impegnate risorse per oltre un miliardo di euro. La priorità non è solo il contrasto alla disoccupazione giovanile, ma anche l’esigenza di superare l’inattività, misurata in quasi due milioni di ragazzi che né studiano né lavorano né cercano impiego, a rischio di deriva e nichilismo.

           Le misure avviate hanno anzitutto lo scopo di superare il disallineamento, in Italia più evidente che altrove, tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle depositate dai percorsi educativi. A questo scopo è stata raddoppiata l’attività di monitoraggio dei mestieri evidenziati dalla domanda delle imprese portandola a una cadenza trimestrale e a una articolazione territoriale di tipo provinciale. Le stesse conoscenze dei giovani sono periodicamente rilevate su base campionaria e attraverso la valutazione delle attività educative. (...)

          Tutto il processo riformatore nelle scuole di ogni ordine e grado come nelle università si muove nel segno di una necessaria integrazione con il mercato del lavoro e della conseguente rivalutazione delle stesse conoscenze pratiche. Le nuove linee guida per la formazione riconoscono il primato dell’apprendimento in ambiente lavorativo e l’utilità di certificazioni sostanziali delle competenze effettive. Il Piano infine individua nel contratto di apprendistato il modo migliore per transitare dalla scuola al lavoro in termini convenienti tanto per i giovani quanto per le imprese.  (...)

          La maggiore inclusione dei giovani nel mercato del lavoro deve in ogni modo partire dall’offerta di opportunità che sollecitino la loro responsabilità. Non è un tratto di penna legislativo – né un incentivo tratto dal bilancio dello Stato – la fonte di un lavoro continuo. Solo l’occupabilità, intesa come possesso di conoscenze e di esperienze, conduce alla convenienza delle imprese di rapporti di lavoro fidelizzati, luogo di ulteriore apprendimento. E alla base di tutto non può comunque che essere quella diffusa riappropriazione del senso del lavoro, dell’utilità verso se stessi e verso gli altri, che si determinano solo se vi è adeguato riconoscimento, anche nella dimensione pubblica, del valore della vita.

Maurizio Sacconi

http://www.avvenire.it

Versione app: 3.25.0 (f932362)