Papa Francesco ci ha testimoniato ancora una volta, senza tante parole ma con la capacità di indicarci la direzione praticandola per primo, cosa significa oggi, nel villaggio globale e digitale, essere fratelli nel nome di Gesù.
«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso», scriveva John Donne in una della sue meditazioni. E continuava con parole che, lette oggi, suonano di grandissima attualità: «Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa».
La prima visita di Papa Francesco a Lampedusa, isola della speranza ma anche "cimitero liquido" – come è stato chiamato –, grembo di morte per tanti corpi senza volto né nome in fuga dalla disperazione e in cerca di un futuro, ci richiama al senso di queste morti. Che non concludono tragicamente solo qualche vita sconosciuta, ma aprono una ferita nel corpo dell’intero genere umano. Noi stessi popolo di migranti, non possiamo cadere nell’oblio della nostra storia e pensare che queste morti, o le vite fragili tenute da un filo sottile di chi riesce a sbarcare, non ci riguardino. Con le sue "enunciazioni spaziali" più eloquenti di tanti discorsi, il suo "camminare verso", il suo avvicinarsi, ascoltare, toccare, Papa Francesco ridefinisce la prossemica della relazioni umane e rende di nuovo visibili i veri confini della fratellanza: che non sono esclusivi (noi/loro) ma inclusivi. L’unico messaggio che conta veramente, la «buona notizia», è un messaggio per «tutto l’uomo e tutti gli uomini», come ha scritto Benedetto XVI nella Caritas in veritate (55). Nessun universale astratto, ma la singolarità irripetibile e irrinunciabile di ogni essere umano, qui e ora. Senza il quale tutti siamo impoveriti; come quando, in una famiglia, muore un fratello.
Ama il tuo prossimo come te stesso, è la consegna che abbiamo ricevuto. E chi è il prossimo? Colui, e colei, su cui posso posare la mano, ha scritto lo psicanalista Luigi Zoja, in un libro sui disagi della società contemporanea, significativamente intitolato La morte del prossimo. Il prossimo non è l’oggetto della mia attenzione, del mio interesse, della mia benevolenza. È chi posso toccare e che a sua volta mi tocca, dato che il tatto – che abolisce ogni distanza – è il senso per eccellenza della reciprocità. Gesù si faceva vicino agli "inavvicinabili" e toccava gli intoccabili. Questo è farsi prossimo. Trasformare l’altro straniero, l’altro lontano, in chi posso toccare con la mano. E che grazie a questo contatto, che è un riconoscimento della sua umanità, può avere una possibilità di rinascita. Papa Francesco ci insegna un metodo che non passa dalle parole, ma dai piedi e dalle mani, da quel corpo che è la nostra interfaccia col mondo, il nostro primo medium/messaggio, il sigillo della nostra singolarità. Camminare verso l’altro, accoglierlo, abbracciarlo. Gesti così semplici e insieme così difficili, in un mondo dove ci si insegna continuamente che «ogni uomo è un’isola», che l’individuo ha bisogno del suo spazio e ha i suoi diritti. Dove ci si tiene sempre a una certa distanza da chi ci parla, specie se è sconosciuto. Il diritto alla speranza è, tra i tanti che oggi vengono evocati, quello meno considerato. Eppure è quello più universale. E riconoscerlo, come un diritto di tutti, ci rende più umani.
Con il suo viaggio, semplice e simbolico, in quest’isola della speranza/disperazione Papa Francesco ci ha testimoniato ancora una volta, senza tante parole ma con la capacità di indicarci la direzione praticandola per primo, cosa significa oggi, nel villaggio globale e digitale, essere fratelli nel nome di Gesù. Alla domanda, che ci viene spontanea, «sono forse io il custode di mio fratello?» possiamo e dobbiamo ora avere il coraggio di rispondere "sì".
Chiara Giaccardi
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