La solidarietà delegata va a gonfie vele, la beneficenza asettica e multimediale raggiunge le latitudini più lontane. Nulla di male, anzi. Sarebbe bello però che tutto questo si configurasse come un «supplemento di amore», non come il surrogato di relazioni che implicano il coinvolgimento verso chi chiede il mio aiuto qui e ora.
del 04 aprile 2008
Nelle due settimane che seguirono lo tsunami del 26 dicembre 2004, gli italiani donarono via sms 28 milioni di euro. Il dato è stato reso noto lo scorso gennaio dai gestori telefonici. È uno dei numerosi esempi che illustrano l'ammirevole generosità di molti italiani. Del resto, una recente indagine condotta da Focsiv e Doxa (Barometro della solidarietà 2007) conferma la diffusa predisposizione a fare donazioni in denaro: il 45% dei soggetti intervistati ne ha effettuata almeno una negli ultimi dodici mesi.
 
Tanta generosità investe di gravose responsabilità coloro che se ne fanno intermediari: a livello internazionale si tratta di grandi organismi come l'Onu o l'Unicef, organizzazioni non governative, istituti missionari; a livello nazionale, incontriamo un ampio e variegato mondo che va da piccole associazioni di volontariato a grandi fondazioni bancarie o istituti di ricerca medica. Purtroppo non mancano casi in cui correttezza e onestà sono quantomeno dubbie, ma, nel complesso, il mondo della solidarietà organizzata dimostra dedizione, trasparenza e professionalità.
 
Vorremmo però qui riflettere sulle particolari modalità attraverso cui si mettono in atto gesti come quello citato all'inizio. La beneficenza, l'elemosina sono sempre esistite e sono scelte dense di significati umanitari e religiosi. Ma oggi entrano in gioco elementi che hanno a che fare con il diffondersi delle nuove tecnologie. Basta un messaggio via cellulare, una telefonata con cui comunicare il numero della propria carta di credito o un click del mouse, ed ecco che parte l'offerta in denaro. Grazie ai mezzi di comunicazione che ci «avvicinano» alle grandi calamità naturali o alle emergenze umanitarie causate dalle guerre, ci sentiamo coinvolti da ciò che è geograficamente lontano; non è più possibile trincerarsi dietro un «non sapevo». L'invio del denaro è allora immediato, quasi spontaneo, e tuttavia il coinvolgimento personale risulta mediato, virtuale. La commozione è forte e autentica, ma non riesce ad elevarsi al livello di compassione (nel senso etimologico di «patire con»). L'aiuto fornito è certo utile ma anche immateriale: qualcun altro provvederà a trasformarlo in azione concreta. Lo sdegno è vibrante ma passeggero (poiché i mass media presto si occuperanno d'altro) e difficilmente il nostro stile di vita verrà messo in discussione.
 
Viene da chiedersi se non si possa stabilire un collegamento tra le ambivalenze qui evidenziate e altri fenomeni messi in luce dalle indagini sociologiche: il progressivo allontanamento degli italiani dal volontariato esercitato in prima persona, i crescenti segnali di intolleranza o di fastidio nei confronti degli stranieri, specie se poveri, il pessimismo sulla politica come impegno personale e servizio per il bene comune. La solidarietà delegata va a gonfie vele, la beneficenza asettica e multimediale raggiunge le latitudini più lontane. Nulla di male, anzi. Sarebbe bello però che tutto questo si configurasse come un «supplemento di amore», non come il surrogato di relazioni che implicano il coinvolgimento verso chi chiede il mio aiuto qui e ora. Ricordando che il samaritano, oggi come ai tempi della parabola evangelica, si fa prossimo di colui che incontra sulla propria strada e che altri fingono di non vedere.
Stefano Femminis
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