L'Avvenire di ieri riportava una testimonianza molto forte di un giovane Bragaglio Fabrizio: una testimonianza forte a favore della vita, anche quando sembra che la vita vada tutta da un'altra parte. E' un uomo di 43 anni. La sua famiglia è di Nave ed era molto legata alla casa salesiana. 10 fratelli, rimasti orfani di padre e seguiti ed educati da una madre che era un gigante nella fede.Fabrizio è exallievo salesiano della casa di Fiesco.
del 03 maggio 2007Sperare nel dolore
Fabrizio, paralizzato dal cancro «Così ho accettato questa vita» «Mi aiutano la fede e l'affetto di mia moglie, mia figlia e dei compagni veri Non giudico Welby, eppure penso che fosse una persona sola, con troppo pubblico e pochi amici» «All’inizio, quando non riesci a respirare, ti sembra di impazzire. Poi, però, scatta qualcosa: vedi che, se ti calmi, se pensi che c’è chi sta peggio di te, se riesci a pregare, anche il corpo risponde meglio».
 
Dal Nostro Inviato A Concesio (Brescia) Paolo Viana
 
La sofferenza non abita più in via Gramsci. Nella stanza di Fabrizio, a Concesio, c'è tutto quel che non ti aspetti. C'è il sole della Valtrompia, che quest'oggi inonda il paese natale di Paolo VI; c'è Luna, il bastardino accucciato sotto il letto; c'è il computer che risponde alla voce, o almeno a quella che le radiazioni hanno risparmiato; ci sono il poster del Milan e una maxifoto con Roby Baggio, ovviamente in rossonero. Nessun segno, invece, del cancro, che un giorno è entrato in questa stanza e non ha più voluto uscirne. Fabrizio conosce bene il tumore alla colonna vertebrale che gli impedisce di muoversi. L'ha studiato per anni, ha memorizzato terminologia e referti clinici, ma, se gli chiedi come se lo immagina, ti risponde con la semplicità dei popolani: «Si chiama astrocitoma del bulbo midollare, ma è come un gomitolo. Hanno cercato di sfilarlo via, l'hanno bombardato con le radiazioni, riuscendo solo a saldare tra loro i fili, poi l'hanno tagliato». Dal suo corpo intuisci che 'il gomitolo' è stato lì, da quel corpo che si raggomitola anche lui da dieci anni. Condannato al letto e al respiratore artificiale, assediato dai crampi. Eppure Fabrizio ama questa vita e sa spiegare perché.
 
Il male. Oggi Fabrizio Bragaglio ha 43 anni. Era poco più di un ragazzo quando sposò Cristina. Matrimonio in chiesa, perché, racconta, «da noi si usa così. Mia madre mi ha insegnato ad avere fede in Dio, mi ha spiegato il bene e il male, mi ha dato le coordinate di una vita onesta e giusta». Doveva essere anche felice, la vita con Cristina. Invece, un mese dopo il matrimonio, ecco il primo malore. «Ero andato in pizzeria con mia sorella e non riuscivo a scendere dall'auto - ricorda -. A Brescia, diagnosticarono un esaurimento nervoso. Cambiai ospedale e cambiò la diagnosi». Che portava dritto in sala operatoria. «Mia moglie non volle dirmi cos'avevo realmente, mi illusi che dovevano estrarmi delle cisti, ma uscii da quell'ospedale paralizzato per metà del corpo, con grosse difficoltà respiratorie. Iniziò la riabilitazione». E trascorsero dieci anni, finché, un giorno, Fabrizio dovette ripresentarsi davanti ai medici bresciani. I quali, stavolta, allargarono le braccia. «Non volevano operarmi - ricorda con un sorriso -, dicevano che era impossibile estirpare il tumore da dov'era». Verdetto difficile da accettare. Infatti, Fabrizio non lo accettò. Il secondo intervento avvenne a Verona. Questo è il suo ricordo: «Camminavo ancora, ma arrivai all'ospedale in carrozzella perché ero stanco. Vedendomi, il chirurgo mi assicurò che mi avrebbe rimesso in piedi. Quando sono uscito dalla sala operatoria non riuscivo nemmeno a respirare da solo».
 
La rabbia. Probabilmente, Fabrizio ha una storia di malasanità da raccontare, ma se la tiene tutta per sé, perché la sua rabbia si è spenta. È laconico sulle operazioni che non ha capito, finite in modo diametralmente opposto alle previsioni dei medici. «All'inizio ti chiedi perché capiti proprio a te. Ma non è neanche rabbia; è stupore», riflette. A distanza di anni, si duole soltanto dei lunghi, lunghissimi mesi trascorsi in una casa di riposo di Nave, il paese d'origine. «In ospedale avevo accettato la malattia, perché quando sei lì sai che ti curano per rimandarti a casa. Ma quando ti trovi, da giovane, in un ospizio, allora crolli. E io sono crollato». Il corpo di Fabrizio era diventato un problema insormontabile per gli altri. Serviva assistenza continua, la pensione non arrivava mai e gli amici di sempre continuavano ad andare in pizzeria, allo stadio, al cinema. Eppure le lacrime non rigano più questo volto. «Sono fortunato - dice di sé - perché la malattia mi ha fatto scoprire gli amici veri». Alcune famiglie del paese, infatti, lo assistono quotidianamente, una signora consacrata gli porta la Comunione ogni giorno, la badante lo accudisce 24 ore su 24. Verso gli 'altri' non serba alcun rancore: «Questa malattia non è un'influenza, capisci?». Guardi il suo corpo, e capisci.
 
La fede. Fabrizio, hai mai pensato all'eutanasia? Ecco, ti ha appena raccontato come lo portano in giro, nelle giornate di sole, su un furgone attrezzato, che musica ascolta e che non si perde una sola trasmissione sportiva; insomma, ti ha raccontato questo suo presente che è anche tutto il futuro, e tu fai la domanda vera, quella che tutti farebbero. Fabrizio coglie il tuo sconcerto e non lo dribbla. Risposta diretta, pacata, chiara: «Quando sono stato male ci ho pensato, ci sono stati momenti bui, all'ospizio. Ma la vita è un dono di Dio. Me l'ha insegnato mia madre e conservo i suoi insegnamenti come un tesoro». Il discorso scivola sulla cronaca, su quel «voglio morire senza soffrire» di Giovanni Nuvoli. Fabrizio commenta: «Solo Dio può decidere quando una vita deve finire, tuttavia nessuno può giudicare, in casi come questi». Oggi lo segue un salesiano, insieme a don Osio, parroco di Sant'Antonino, la comunità che ha 'adottato' Fabrizio. La fede però è tutta per la Vergine di Caravaggio, il santuario dell'adolescenza, «ci andavamo il pomeriggio, dopo la scuola, io studiavo a Fiesco». È la fede antica di tanti bresciani, cremonesi e bergamaschi. «Se non hai una fede solida - ammette - è difficile vivere nelle mie condizioni». Quando ti parla dell'Eucaristia gli brillano gli occhi. «Ricevere la Comunione mi fa sentire una carica dentro, capisci?» Guardi i suoi occhi, e capisci.
 
Gli affetti. «La mia fortuna è che ho una figlia cui pensare e dei buoni amici che mi aiutano nelle piccole cose. Sono fidati e ci sono sempre». Dafne ha 14 anni e il turbinio dell'adolescenza non la distoglie dal padre. Fabrizio conserva tutti i ricordi dei suoi quattordici anni e la ragazzina è una sorgente di questo ottimismo. «Spero di insegnarle il senso positivo della vita - ci dice -; certo, una figlia, per di più quand'è adolescente, ha molti problemi, dubbi, controversie: io posso ascoltarla e consigliarla, volerle bene. Non è poco, credimi». La conversazione ripiomba sull'efficacia di questa corona d'affetti. E da lì, come un refrain, sull'eutanasia. Il richiamo della cronaca è imperioso. Parliamo della scelta di chi non ce l'ha fatta. «Dopo la fede, gli amici e i famigliari sono importantissimi per non farti crollare. Sia chiaro - scandisce - che io non condanno Welby e non lo giudico neppure. Dico solo che secondo me era una persona sola. Intorno a sé ha avuto tanta attenzione mediatica, tanta pubblicità. Ma se avesse avuto più amici e meno pubblico, forse non avrebbe voluto morire».
 
Il corpo. «Voglio bene al mio corpo, una persona ammalata deve volergli bene, altrimenti non ha senso vivere». È la sua filosofia. Del suo corpo fa parte, ormai, anche 'lei', cioè la macchina. Si tratta di un respiratore meccanico, indispensabile durante il sonno, quando Fabrizio non riuscirebbe a respirare. Curare il proprio corpo è anche curare quella macchina. «Sto attento a come si gonfia il palloncino, alla sostituzione del filtro dell'aria, a tutto insomma, perché so che se 'lei' funziona io sto meglio». Ma non c'è alcuna simpatia. Anzi, vorrebbe liberarsene. «È lei che comanda, non posso fare un respiro in più, lei detta il ritmo». L'argomento accresce la fatica di questa chiacchierata. Fabrizio socchiude gli occhi e la conclude così: «Ormai 'lei' fa parte di me».
 
La speranza. Nell'esperienza del dolore c'è spazio per una sensazione di rinascita. «All'inizio non riesci a sopportare il dolore e la fatica, ti sembra di impazzire quando non riesci a respirare. Poi, però, scatta qualcosa: vedi che, se ti calmi, se pensi che c'è chi sta peggio di te, se riesci a pregare, anche il corpo risponde meglio, tutto va meglio. E la speranza inizia lì». La testimonianza è convincente proprio perché Fabrizio ha accettato il male. In tutti i sensi. «La fede ha una parte importante nell'accettazione di 'questa' vita e io non chiedo nessun miracolo a Dio; l'ho fatto in passato, ma ho capito che se devo vivere in questo modo, ci sarà un motivo che non mi spiego. Mi basta stare bene con il mio corpo, avere quel poco di salute che ho». Una smorfia di dolore riporta il male nella stanza e Fabrizio, con uno dei suoi sorrisi, lo ricaccia fuori.
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