Li chiamano «minori stranieri non accompagnati». Dietro questa definizione storie e sogni di ragazzi arrivati soli in Italia. Siamo entrati in due comunità, dove si cerca di accompagnarli in un percorso di crescita. Voglia di fuga permettendo.
del 08 maggio 2007
«Scusa signora, per favore, dov'è la stazione dei treni?», chiede Mohammed, sfoggiando le poche parole d'italiano imparate per sopravvivere nel suo viaggio. Meta Milano, l'Eldorado del lavoro. Almeno così si dice dalle sue parti, l'Egitto. La signora, con piglio e preoccupazione, gli spiega in siciliano stretto che da Agrigento il viaggio è lungo. Mohammed non capisce bene, fa il giro dell'oca e si ritrova ancora ad Agrigento. Alla fine, sconsolato, ritorna alla comunità di accoglienza da dove era fuggito. Forse è meglio stare in questa grande famiglia allargata.
Mohammed ha 16 anni. Lui, per ora, ha rinunciato all'Eldorado, ma altri come lui, minori stranieri non accompagnati, arrivati in Italia dopo viaggi infernali, senza genitori né permesso di soggiorno, sono riusciti a strappare il biglietto di sola andata per Milano. Mohammed è uno dei 7.583 minori non accompagnati censiti dalla Caritas (Comitato per i minori stranieri, Rapporto 2006).
Ma dove vanno a finire i minori soli, una volta approdati in Italia? Gli sbarchi sono cronaca quotidiana, specie d'estate, meno conosciuto è invece il tentativo del loro inserimento nel tessuto sociale da parte delle comunità di seconda accoglienza per minori (dove devono essere portati dai servizi sociali comunali o dalle forze dell'ordine su disposizione del Tribunale dei minori), da cui spesso scappano per disperdersi silenziosamente tra le maglie dello sfruttamento minorile.
Il collocamento in queste comunità fornisce ai minori l'occasione, non sempre colta, di intraprendere un percorso educativo, utile ai fini dell'ottenimento del permesso di soggiorno, una volta compiuti i 18 anni. Un percorso che presenta successi e insuccessi, in un Paese che deve fronteggiare l'assenza di un Programma nazionale minori caldeggiato dall'Anci (Associazione nazionale Comuni italiani). Un suo recente rapporto segnala un aumento della presa in carico di minori stranieri da parte dei Comuni: 5.663 nel 2002, 6.455 nel 2003.
 
 
RAMADAN SICULO
 
Il nostro viaggio inizia dalla Sicilia, terra del primo arrivo via mare per molti stranieri, precisamente nell'agrigentino (per motivi di privacy ometteremo i nomi delle comunità, così come quelli dei giovani ospiti).
L'autorizzazione ad aprire la comunità è arrivata nella primavera 2006, i primi ragazzi il 18 giugno dello stesso anno. Ma l'aspetto curioso, fanno notare gli educatori, è che «noi siamo una comunità alloggio per minori italiani, ma finora abbiamo avuto richieste solo per stranieri, vista l'emergenza». Emergenza che fa sforare il limite di dieci minori per comunità previsto dagli standard socio-sanitari. Le autorità lo sanno, ma, come sempre, la necessità impone di chiudere un occhio. Nella sala-soggiorno c'è aria frizzante sia per la presenza di ospiti, sia perché i ragazzi stanno rispettando il ramadan e l'ora del pasto consentito si sta avvicinando. Le abitudini della comunità sono state un po' scombussolate, ma gli educatori vogliono permettere ai ragazzi di seguire la loro tradizione religiosa. Sospesi per un mese i soliti orari dei pasti, tavola apparecchiata solo alle 18.30 e regole ferree durante il giorno: non si beve, non si fuma, non si potrebbero neanche prendere medicine, ma su questo gli educatori hanno mediato, almeno nei confronti di un ragazzo che ne aveva bisogno. Piccola colazione alle 3 e mezza di notte, con latte e pane, in attesa della prima preghiera delle 5 e mezza, poi di corsa a dormire fino a mezzogiorno, per chi può e non deve andare a scuola.
Sono impazienti ed eccitati i ragazzi: si ammassano tutti in sala, divertiti da Sayed, l'imitatore, che ci fa leggere la sua storia: «I soldi a casa non bastavano mai. Da noi, in Tunisia, si dice 'in Italia tanto lavoro, molto bella'. Mi manca la mia famiglia, sono spesso triste e per questo scherzo, mi serve a non pensare». Sayed è arrivato dopo tre giorni di navigazione, con pasti a base di acqua e zucchero. Non tutti gli ospiti sono musulmani, ci sono anche tre eritrei cristiani che stanno in disparte e guardano con un po' di diffidenza. I tre moschettieri, li chiameremo così perché sono inseparabili, spiegano che sono scappati dal loro Paese per fuggire dalla guerra e soprattutto dalla leva obbligatoria. Sono venuti in Italia, dove hanno fatto richiesta di asilo politico. D'Artagnan, il leader, racconta in un buon inglese: «Abbiamo attraversato il deserto con la macchina. Dopo 15 giorni siamo arrivati in Sudan e poi siamo andati in Libia. Ma lì non esiste rispetto dei diritti umani. In Libia c'erano differenze tra cristiani e musulmani: ci davano porzioni di acqua e pane dimezzate e ci hanno anche strappato la croce dal collo». In tutto hanno pagato 3.500 euro a testa.
 
 
FRAGILITÀ E CRESCITA
 
La comunità, oltre a garantire vitto e alloggio, a inserire i ragazzi a scuola, a farli socializzare con lo sport e le attività di laboratorio, elabora i cosiddetti «progetti educativi individuali». Aderire a «un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato» è una delle tre condizioni della legge Bossi-Fini per trasformare, al compimento dei 18 anni, il permesso di soggiorno per minore età in permesso per studio, lavoro o «attesa di occupazione». Le altre due condizioni sono che il Comitato minori stranieri non abbia deciso per un rimpatrio e che il minore sia arrivato in Italia prima di compiere 15 anni.
Questa regola (che potrebbe presto essere modificata nell'ambito della annunciata riforma della Bossi-Fini) presenta due punti deboli. Anzitutto, come denuncia Save the children, mentre il permesso di soggiorno viene rilasciato senza problemi a chi è entrato in Italia prima di compiere 15 anni, per coloro che si sono impegnati in un percorso di integrazione, ma sono arrivati dopo i 15 anni, si prospetta spesso l'irregolarità al compimento della maggiore età. Una situazione, quindi, che disincentiva i minori over 15 anni a intraprendere percorsi educativi e abbassa l'età di arrivo dei minori, sempre più vulnerabili.
Inoltre, l'elevata propensione alla fuga dalle comunità rende difficile l'attuazione dei progetti educativi. «La percentuale di fuga è alta - racconta Marianna Bianchi, responsabile dell'area educativa della comunità nell'agrigentino -: finora sono passati di qui una cinquantina di ragazzi e abbiamo avuto 35 fughe. Ci siamo chiesti dove sbagliavamo, poi abbiamo capito che il motivo è semplice: questi minori vengono in Italia perché hanno bisogno di lavorare e mandare a casa i soldi. È difficile trattenerli».
Ma l'équipe di educatori (una decina di giovani, tra stipendiati e volontari) non si perde d'animo. A breve decollerà anche un laboratorio teatrale: «Allestiremo uno spettacolo basato su suoni e immagini dei diversi Paesi - piega Cettina Callea, insegnante d'inglese e volontaria per i corsi d'italiano nella comunità -. Ogni ragazzo canterà le proprie canzoni tipiche, leggerà favole e racconterà il proprio viaggio per raggiungere l'Italia».
Se l'indice di fuga rappresenti o meno uno degli indicatori dell'«efficacia» di una comunità è un dibattito aperto. Certo è che la Sicilia, come terra di primo approdo verso un'altra meta ambita, ha scarso appeal verso i minori che vogliono raggiungere il tanto agognato Nord Italia.
 
 
LA DELUSIONE DELL'ELDORADO
 
Spesso, però, chi riesce ad arrivare a Milano è costretto a vivere situazioni di tale sfruttamento e precarietà che si convince del valore aggiunto della comunità. È il caso di Maroan, diciassettenne egiziano che lascia la famiglia a 14 anni. Anche lui trascorre tre mesi in Libia, da dove partirà su una nave con 250 persone stipate come animali: «Hanno buttato anche degli uomini in mare - ricorda tristemente Maroan -. Dopo tre giorni a Lampedusa, sono stato due settimane in una comunità a Caltanissetta. Ma sono scappato. Avevo un biglietto per Milano dove ho lavorato per un anno in nero come muratore». Maroan è arrabbiato con quel datore di lavoro che lo pagava poco e a singhiozzo. Quando viene intercettato dai servizi sociali di Milano che gli propongono di andare nella comunità «La Madonnina» lui accetta. Vi trascorre un anno durante il quale la comunità gli procura il permesso di soggiorno per minore età, il passaporto, lo iscrive al Consorzio scuola-lavoro, dove segue lezioni per esperto elettro-informatico. Poi nel giugno scorso la comunità viene chiusa e gli otto ragazzi vengono smistati in altri istituti. Maroan viene accolto in una comunità nel pavese.
I minori non accompagnati arrivano nelle comunità una volta intercettati dai servizi sociali, dalla polizia ferroviaria o dalla questura. La presenza del minore va subito segnalata alla Questura, alla Prefettura, al Tribunale dei minori e al Comitato dei minori stranieri. Sul coordinamento tra queste istituzioni gli operatori sollevano qualche perplessità: «Non è facile mettersi in contatto con il Comitato dei minori stranieri per avere notizie sulle loro famiglie d'origine - fa notare ad esempio Simona Lucchini, assistente sociale del Comune di Pavia -. Le risposte le riceviamo, spesso dopo mesi, molto vaghe e non precise. Alla fine è la comunità che, quando è possibile, rintraccia la famiglia d'origine». Al nostro ingresso nella comunità pavese siamo colpiti da un'onda musicale variegata che arriva dal primo piano: note elettriche di house music, parole provocatorie hip-pop, melodie romantiche arabe. Nelle ore di siesta, la musica qui regna sovrana, diventa per i minori della comunità il linguaggio e lo spazio comune in cui non c'è bisogno d'interpreti e mediatori. Le note mediano già emozioni e sogni.
La comunità è stata inaugurata nell'agosto 2005 e attualmente ospita sette minori, perlopiù stranieri. Anche al Nord c'è fame di spazi: «Il Pronto intervento minori dei Servizi sociali di Milano - spiega il responsabile della comunità pavese, Alberto Camandola, psicologo - in un anno colloca circa 400-500 ragazzi, cioè due al giorno. Il bacino di comunità che lavorano sulla pronta accoglienza e sulla seconda accoglienza è veramente esiguo rispetto alle reali necessità».
Maroan prega tutti i giorni, al mattino e alla sera legge il suo Corano tascabile. «Se leggo il Corano sono tranquillo - confida -. In comunità mi hanno fatto crescere dentro. Mi aiutano». A breve inizierà a lavorare come imbianchino, grazie alla borsa lavoro attivata dalla comunità. Il suo per messo di soggiorno come minore, allo scoccare del 18° anno, potrà facilmente essere convertito in permesso per lavoro. Come Maroan, altri tre minori, grazie alle borse di studio previste per i tirocini formativi, lavorano presso datori di lavoro della zona interessati ad assumerli in seguito.
La soddisfazione più recente in comunità è stato il progresso del timido Josef, che proviene da una zona molto povera e rurale del Marocco. Primo obiettivo del suo programma educativo è l'ottenimento della licenza media, che conseguirà l'anno prossimo. Secondo obiettivo cominciare ad avviarlo al mondo del lavoro. Josef è il giardiniere del paese limitrofo: cura insieme al cantoniere il verde del Comune.
A coltivare contatti con il mondo del lavoro è l'infaticabile don Anselmo: «È importante che i ragazzi lavorino nel territorio limitrofo perché così la popolazione li vede, li conosce e comprende che sono normali». Una normalità inizialmente difficile da accettare per il paese, che mostrava diffidenza rispetto a questi ragazzi, a volte usciti dal circuito penale. «Ma con il tempo la gente ha capito - spiega il sindaco -. Anzi, molti di loro si sono amalgamati con i nostri ragazzi. Per superare la diffidenza ho voluto fortemente che qualcuno di loro lavorasse per il Comune». Sinora, a un anno dall'apertura della comunità, sono passati di qui 18 minori: solo uno è scappato, tutti gli altri hanno portato a termine o stanno seguendo il programma educativo individuale.
 
 
ELABORARE L'IDENTITÀ
 
«Come equipe di educatori e psicologi continua Alberto Camandola -, con i minori stranieri lavoriamo soprattutto sull'identità, che è frammentata e piena di vissuti traumatici. È fondamentale la presenza del mediatore culturale». Ogni giorno, dal secondo pomeriggio in poi e per tutta la notte, arriva in comunità Chemchi Bikarbas, 43 anni, laureato in fisica, dal 2000 mediatore culturale. Chemchi cerca quotidianamente di far comunicare la cultura italiana e quella di origine e di creare solidarietà tra i ragazzi: «La cosa più difficile da far accettare è il programma educativo - commenta -. I ragazzi vengono qui per lavorare e mandare soldi a casa, dove la famiglia potrà comprare un terreno e scavare un pozzo. All'inizio pensano di perdere tempo con il programma di due anni, ma poi ne capiscono l'utilità».
I ragazzi sono molto attaccati a Chemchi, non appena arriva gli ronzano attorno come api con il miele, forse perché sentono i suoni e gli aromi della loro terra evocati da piccoli gesti quotidiani come la preparazione della merenda, a base di thè alla menta servito con il pane. Per quell'ora sono tutti in cucina, il cuore della comunità, luogo di confessioni e confidenze alla loro «zia», come chiamano la cuoca Patrizia. A vederli così, questi piccoli grandi-uomini mentre mordono un po' goffamente il pane, vengono in mente i versi di una poesia africana: «Non so di quale paese tu sia, non so di quale madre né di quale padre, non so di quale amore tu soffra l'abbandono, non so di quale ricordo tu sei prigioniero, non so di quale destino tu sia portatore, non so di quale solitudine tu sia ostaggio, ma so per quale libertà devi camminare, la libertà di una vita degna».
Anna Casanova
Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)