Interventi nell'ambito della seconda giornata del Convegno ecclesiale in corso di svolgimento alla Fiera di verona. Sintesi di tre interventi sul tema della speranza nell'ambito dell'affettività, della cultura e della storia
del 18 ottobre 2006
professore associato di Psicologia dei gruppi e di comunità
nell'Università Cattolica del Sacro Cuore
 
Essere testimoni di speranza nella vita affettiva e familiare significa sforzarsi di rigenerare le nostre relazioni familiari nella loro più autentica e profonda valenza relazionale e simbolica, e accettare, da pellegrini e stranieri, il rischio di dare fiducia all’altro, nello scorrere delle transizioni che mettono alla prova i legami, ma nella sicurezza della meta per il cui raggiungimento vale la pena di impegnarsi. Significa, in sostanza, lanciare una sfida al non senso a cui sono ridotte oggi le relazioni umane. E anche la famiglia fondata sul matrimonio, al posto della quale si invocano soluzioni caricaturali basate sulla sola affettività: come i Pacs, forme di “legame leggero” e non vincolante.
Si assiste all’effetto banalizzazione dei concetti di speranza, affetto, amore, famiglia nella società odierna. Le esperienze affettive sono “sempre più vissute come pura passività incontrollabile dalla libera volontà, come esperienza esauribile nell’hic et nunc, come realtà dell’io individuale, pieno del suo sentire e delle sue emozioni e quindi senza spazio per l’incontro con l’altro. Da un lato, insomma si esalta ciò che piace, dall’altro si denigra ciò che è responsabilità. Fino a contrapporre affetto a norma, passione a ragione. Si dimentica, insomma, che l’uomo, in quanto persona, è “fondamentalmente relazione con l’altro. Siamo di fronte, dunque, a un vero proprio “marasma” terminologico che tutto confonde. Innanzitutto si elimina la dimensione etica connessa alla relazione. L’individuo può tutto. Ciò spiega separazioni, divorzi, denatalità, ricorso a tecniche di fecondazione artificiale nella logica del “diritto alla maternità” e del “figlio a tutti i costi. Certo, oggi sono cadute anche anacronistiche forme normative, dai matrimoni combinati, al sostanziale patriarcato  in nome di una maggiore valorizzazione dell’espressione sincera dei legami affettivi. Ciò non significa, però, cedere allo spontaneismo, il quale porta con sé pesanti ricadute. Sul piano dell’impegno per la vita. Si pensi all’alone di anacronismo che circonda un parola come fidanzamento, che ha lasciato spazio ad esperienze ‘usa e getta’ o tutt’al più a reiterati tentativi di ‘prove ed errori’ vissuti sostanzialmente come sperimentazioni narcisistiche. Luci e ombre del modo di vivere relazioni orizzontali (fratellanza, amicizia, vita di coppia) e quelli verticali-gerarchici (genitori-figli soprattutto). In gioco ci sono, sul primo versante, l’impoverimento dei valori relazionali e la precarietà dei legami, per cui si fa fatica a parlare di matrimonio, ma anche di sessualità, ai giovani: la coppia rimane una questione da adulti. Pure sul piano dei rapporti tra genitori e figli ci sono difficoltà: il figlio è il centro della famiglia, che spesso si costituisce dopo il suo arrivo, su di lui si fa un investimento eccessivo. Va applicata una vera e propria svolta, e cioè passare sempre più dal possesso individuale e dall’ambito prettamente familiare a una dimensione comunitaria.
 
 
 
professore ordinario di Storia della filosofia nell'Università di Bari
 
Come può un uomo del nostro tempo, più di Duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole su questo avvenimento? E com’è possibile verificare con  ragioni adeguate il fatto che, attraverso la vita della Chiesa, questa presenza mi raggiunga lungo il corso del tempo, e riaccada ora nel presente?
Le due domande riguardano tutti gli uomini di tutte le epoche. Oggi, però, si fa molta fatica a comprendere la tradizione come una vita; al massimo essa è un glorioso passato da conservare devotamente o archeologicamente, oppure – come nella maggioranza dei casi – qualcosa che si deve ‘aggiornare’ o superare in virtù dell’idea di un continuo progresso in avanti con cui andrebbe reinterpretato il messaggio evangelico. Nei luoghi dove si produce la cultura odierna, cioè libri, letteratura, mass media passa un’idea di uomo “per il quale la tradizione rappresenterebbe un retaggio di cui liberarsi, come si farebbe con un macigno che impedisse la libertà di movimento.
Se si sente affermare sempre più diffusamente che il prezzo del dialogo con chi proviene da una tradizione diversa dalla nostra sarebbe quello di elidere o censurare il nostro volto, è invece proprio andando al fondo della coscienza di sé che si può incontrare veramente l’altro. Puntare a ciò che unisce rispetto a ciò che divide non vuol dire affatto ridurre il cristianesimo a un’indistinta e confusa religiosità o a un fideismo sentimentale per poterlo unificare con altre forme e tradizioni religiose; piuttosto significa verificare tutto alla luce di quei criteri di ragionevolezza e di realismo che condividiamo con tutti gli uomini e che ciascuno può scoprire nella sua esperienza, a patto di liberarsi da quei pregiudizi e da quelle interpretazioni che non corrispondono alle esigenze della vita e che spesso rischiano addirittura di negarle.
 
 
 
professore ordinario di Scienza politica
e rettore magnifico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
 
Per il credente, dare dimostrazione della speranza di cui egli è liberamente e responsabilmente testimone «non è solo un atto dell’intelligenza, ma è un esercizio storico, un compito e un rischio della libertà».
Veniamo da anni in cui troppo spesso la cultura è sembrata soltanto un programma stilato in modo più o meno perentorio da minoranze elitarie. Viviamo ancora una fase in cui la cultura, più che illuminare la vita di tutti e aprire con speranza al futuro prossimo, s’incunea tra il ‘comprendere’ e il ‘fare’. Anche per questi motivi, la condizione attuale dei cattolici viene talvolta descritta o stigmatizzata nei termini impropri e fuorvianti di una montante irrilevanza, della perdita della capacità di esprimersi in modo efficace e persuasivo, di una perdurante minorità dentro i processi di scelta collettivi.
Nelle attuali società, ripiegate sul presente anche perché immobilizzate in uno stato di perdurante e insoddisfatta attesa, vi è dunque un secondo motivo per cui la cultura deve essere parte costitutiva dell’esercizio storico richiesto a chi intende testimoniare la speranza. La speranza, per le odierne società e per tutte le parti che le compongono, è la trama stessa del futuro verso cui tendere e alla cui costruzione collaborare.
Per riuscire a cogliere l’essenziale della nostra stagione storica, per superare quella condizione di spaesamento che è così tipica dei nostri giorni, la cultura non può dunque che essere una cultura – se questa formula la si intende bene – intrinsecamente sperante. Spetta a un’autentica visione culturale tradurre la speranza in pratiche di vita – siano esse individuali o sociali – il più possibile piene e appaganti.
Soprattutto nel corso degli ultimi tre secoli, si è via via ampliata e socialmente radicata la fiducia nelle illimitate possibilità del­l’uomo di applicare mediante la scienza, con successo e senza troppi ostacoli, le proprie capacità razionali per trasformare il mondo e migliorare senza sosta le condizioni di vita. I grandi e positivi traguardi raggiunti hanno condotto a una sopravvalutazione della ragione scientifica e tecnologica, talché quest’ultima, oggi, non solo conserva la condizione di una verità autoevidente, ma – significativamente, in un’età in cui ogni certezza è contrastata dalle dominanti mentalità del relativismo – continua a godere di una autolegittimazione quasi assoluta. Nemmeno l’intatta fiducia nella ragione scientifica e tecnologica, però, riesce ad alleviare o a mascherare la crescente difficoltà di trovare il senso unitario della vita e, dentro di esso, il senso autentico di ciò che consente di guardare con speranza al futuro. Tanto più è difficile coltivare durevolmente la speranza, quanto più restiamo soggiogati alla drammatica scomposizione dell’umano.
L’«esercizio del cristianesimo» implica dunque lo sforzo di farsi carico delle aspettative più autentiche e dei bisogni più profondi del Paese intero, della sua domanda di non cadere definitivamente nell’apatia, né di dover assecondare la tentazione che non sia possibile costruire nulla se non attraverso continue contrapposizioni e l’ostentazione di insanabili inimicizie. È in questo “farsi carico” che cultura e politica si incontrano. È in questo “farsi carico” che il cattolicesimo italiano, anziché lamentarsi della propria irrilevanza o perifericità, può e deve trovare le ragioni dell’orgoglio della sua storia, del suo presente, della sua capacità di guardare con coraggio e senza ideologismi al futuro.
La cultura, quando è viva e aperta, non può che entrare in un fecondo rapporto con la società.
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