Sposala e muori per lei

In libreria il nuovo libro di Costanza Miriano. Per l'autrice il matrimonio è un impegno: non ci si sposa sperando che funzioni ma con lo scopo onesto, senza tattiche e sotterfugi, di farlo funzionare sgombrandolo di tutte le velleità romantiche che da oltre un secolo hanno inquinato l'idea dell'amore.

Sposala e muori per lei

In libreria il nuovo libro di Costanza Miriano 

          Costanza ci aveva aveva fatto sorridere e meditare con il suo primo libro “sposati e sii sottomessa” ma fondamentalmente ci aveva lasciato con una domanda in sospeso: come converto mio marito? Quando è arrivata la notizia di un secondo libro tutte noi lettrici sposate abbiamo cominciato a fregarci le mani ridacchiavando sotto i baffi: adesso sentiranno i nostri cari mariti la giusta reprimenda cattolica sul matrimonio.

          Ma Costanza ci ha sorprese ancora una volta: sì perchè la conversione dei mariti passa attraverso le mogli ed è quindi a noi in particolare (ma gli uomini, sì, sono più coinvolti rispetto al primo libro!) che ancora una volta la scrittirce si rivolge quando parla del matrimonio. Perchè quella degli uomini, lo tiene a precisare più volte nel testo, è una lingua non lingua. Nel senso che è talmente diversa dalla nostra che il dialogo come noi lo vorremmo (attento, affettuoso, presente, comprensivo, etc etc) non è possibile.

          Ma se gli uomini non capiscono spesso le nostre parole capiscono molto bene il tono dei nostri discorsi e ancora di più i nostri gesti concreti e il rispetto che con quelli comunichiamo. Il messaggio alla base è quello che la conversione, cioè la felicità, non è nonostante il proprio marito ma proprio grazie a lui, anche ai suoi limiti e al suo egoismo. L’effetto è quindi una conversione a tutto tondo della coppia che passa attraverso la vocazione matrimoniale e coinvolgi entrambi gli sposi.

          La scrittrice ci invita a diventare moglie di Gudbrando: cioè ad avere un atteggiamento positivo a priori nei confronti dei nostri mariti in modo da poter innescare così un circolo virtuoso. I coniugi e i genitori si possono rispecchiare molto bene nelle tipologie che Miriano tratteggia in modo divertente ed acuto: la madre dedita totalmente al figlio che dimentica il marito, la moglie criticona con crisi di ipercontrollo o l’altra lamentosa e dolente. E alla fine di ogni capitolo, alla conclusione di questa analisi, un concreto impegno a migliorarsi.

          Sì perchè per Costanza Miriano il matrimonio è un impegno: non ci si sposa sperando che funzioni ma con lo scopo onesto, senza tattiche e sotterfugi, di farlo funzionare sgombrandolo di tutte le velleità romantiche che da oltre un secolo hanno inquinato l’idea dell’amore.

          Ma qual è allora il segreto? L’accoglienza, il rispetto e ancora una volta la sottomissione franca e sincera da parte della donna arriveranno veramente a parlare al cuore del marito. Il “temuto” libro per gli uomini non è arrivato ma ancora una volta un libro intelligente e divertente (quante volte ci si riconosce nelle sue pagine!) sulla profonda ragionevolezza della via cristiana alla felicità, anche e incredibilmente, attraverso il matrimonio.

L’amore è preterintenzionale

          Adesso che ci penso, che sia io a dare consigli su come dire agli uomini di sposarsi è poco credibile, ma ormai è tardi per dirlo alla casa editrice. Non so come fare, a questo punto.

          Dovrei svelare che io al mio, di marito, ho teso una sorta di agguato, organizzandogli un matrimonio distratto, un po’ sottinteso. È vero, gli ho dato appuntamento in una chiesetta e, sì, è vero, avevamo fatto il corso prematrimoniale. Forse lui avrebbe potuto anche sospettare qualcosa, ma per il resto – invitati, lista, vestiti, viaggio – ho scelto un profilo così basso (per dire, le bomboniere le ha cotte in forno mia sorella) che era difficile mettersi in agitazione.

          Quella mattina, tra pochissime persone, ho cominciato facendo la vaga, a porgli domande tipo “vuoi andare a sciare? vuoi che Jeff Buckley abbia il posto che si merita nella storia della musica? vuoi tu prendermi in sposa? vuoi che la Roma vinca lo scudetto?” “sì ok lo voglio…qual era la penultima che hai detto?”.

          Ho consultato un mio amico docente di diritto canonico e dice che comunque è valido. Da allora la grazia del sacramento è deflagrata nella nostra vita, facendo nuove tutte le cose.

          Già, perché il sacramento ha una potenza che noi non possiamo neanche immaginare, a volte segreta e nascosta; può agire in un modo che forse solo quando avremo raggiunto la nostra patria eterna capiremo, un modo potentissimo che però ha bisogno di partire dal sì della nostra libertà. Il nostro sì può essere anche timido, tentennante, la nostra scelta può anche essere fatta con una coscienza ridicola, ma Dio non scherza mai. E poi, più noi agiamo da persone serie con lui, più lui è serio con noi, e ci risponde con una prontezza sconvolgente, senza mai farsi battere in generosità.

          Se la gente sapesse, davanti alle chiese ci sarebbe la fila di persone che chiedono di sposarsi, altro che numero dei matrimoni in caduta libera. Invece conosco tantissime donne – e dico donne perché stava a noi, prima che ci perdessimo, custodire la chiamata dell’uomo all’amore – zitelle (rifiuto la parola single) o pluridivorziate che hanno bruciato la loro vita e il loro amore dietro chiacchiere psicologoidi e modernoidi, cose tipo trovare se stessi, seguire il proprio istinto, guarirsi le ferite, lasciarsi guidare dai segni, dal destino e quelle cose col karma di cui non capisco un tubo: tutto ovviamente facendo a meno di Dio, che sarebbe l’unico che queste cose – guarirci, realizzarci, trovarci – le potrebbe fare per noi. Da quando invece le scienze umane hanno preso la follia generale come punto di partenza, come fisiologico su cui costruire e progettare la persona standard, come hardware su cui configurare il sistema operativo della società è iniziato il declino accelerato della nostra civiltà nel suo insieme.

          In particolare in tutti i luoghi e i modi e i momenti possibili – mi sembra che sia questa la battaglia del secolo – si cerca di negare che il matrimonio tra un uomo e una donna (o la vita consacrata, che è un modo ancora più intimo e profondo di sposare qualcuno) corrisponda al desiderio profondo del cuore umano: tutti cominciano una storia pensando che sarà per sempre, e che la simbiosi provata in certi momenti possa, debba durare per sempre.

          Il fatto è che nel matrimonio si parte, si dovrebbe partire, dalla domanda “chi sono io, chi è l’uomo”, per arrivare – chi prima, chi anche dopo molti anni di matrimonio – a capire che lo sposo è solo umano e non sarà in grado di soddisfarti pienamente. “Non sono io – scrive C.S. Lewis – io sono solo un promemoria. Guarda. Guarda. Cosa ti ricordo?”

          Allora il matrimonio diventa un’elettrizzante avventura verso l’eterno, del quale l’altro è promemoria con la sua bellezza, la via che Dio ha scelto per prendersi cura di te, per amarti, ma anche per farti attraversare quel mistero che riguarda la vita di ognuno, la croce. La croce è il segno di ogni chiamata, anche di quella matrimoniale, perché l’amore è anche un lutto, un disgusto, una delusione, una indifferenza, una fatica e una pesantezza abbracciati.

          Il problema è: come convincere un uomo della grandezza della scelta del matrimonio, come farlo innamorare dell’idea di morire per qualcosa di così poco eroico?

          Perché le donne questo desiderio di stabilità, se non lo soffocano sotto pile di giornali e film infarciti di ideologia dell’indipendenza femminista, lo riconoscono più facilmente in sé. Per dire, Michelle Pfeiffer, che vuole trovarsi accanto Robert Redford al suo risveglio, quando lui risponde “Finora mi ci hai sempre trovato, anche se non so come hai fatto.”, replica: “Sì, ma ho bisogno di sapere che ti ci devi far trovare per legge”. Qualcuno sosterrà che l’esempio non fa testo, perché, siamo seri, chi non direbbe una cosa del genere a Robert Redford?

          Il problema, Robert o no, è che un uomo può essere pronto a dare la vita, preferibilmente tutta insieme, per un ideale, una guerra, una squadra al limite, ma convincerlo a morire piano piano è difficile. Difficile fargli vedere l’eroismo, la grandezza, l’anticonformismo di decidere di lottare per la sua famiglia, di salvare il mondo una pratica alla volta, come Mister Incredibile che si mette a fare il liquidatore di assicurazioni, di morire per una moglie umana, umanissima (o anche subumana, quando, per dire, tenta di prelevare dal bancomat con la tessera della profumeria, o gli fa una telefonata transoceanica da sotto al divano per dirgli che c’è un pipistrello in casa. E comunque era una falena).

          Quanto alle donne, devono sempre verificare se, tante volte, ne possano (o ne avrebbero potuto) trovare uno un po’ più. Segue elenco di aggettivi a scelta. Profondo, nobile, spiritualmente elevato ma anche aitante, brillante, bello, ricco ma nobilmente disinteressato al denaro, fine psicologo, filosofo ma anche un po’ idraulico, stabile e calmo ma deciso all’occorrenza, fine conoscitore della Bibbia, possibilmente dei testi almeno almeno in latino, ma anche della più vivace leva registica contemporanea, sportivo, capace di ascoltare, rude ma innamorato, ordinato ma creativo, un po’ gastroenterologo ma non ipocondriaco, amante della letteratura e dell’arte ma pratico, falegname e filologo, in grado di ricordare date e particolari dei primi appuntamenti ma fieramente concreto, capace di sbrigare le faccende domestiche ma anche di fare le tracce per l’impianto elettrico, accudente coi figli ma autorevole.

          La donna deve fare un cammino di conversione non dico per pretendere di meno, ma per valorizzare quello che c’è, imparando a partire dal reale. L’uomo invece al contrario fa fatica a volare un po’ più alto. A vedere la bellezza e la grandezza della sua chiamata.

          Purtroppo, ammettiamolo rassegnatamente, se c’è qualcuno che esalta il matrimonio, lo fa spesso con quelle parole logore e spente, con quelle fotine di famiglie rigorosamente in scarpa comoda e tuta da tempo libero tali da indurre anche nel più volenteroso ascoltatore, anche se profondamente cattolico, il desiderio di prendere qualsiasi altra strada, compreso al limite scappare alle Barbados con il meccanico transessuale dalla lunga chioma biondo platino per sfuggire all’attacco di claustrofobia.

          Difficile trovare chi esalta la famiglia come un gioco per veri duri, una sfida fantastica e avvincente dove è obbligatorio, tra le altre cose, continuare a sedursi e ridere tantissimo, anche quando si fa fatica. Perché la fatica si fa, ma l’amore ha una sola misura: quello a cui si è pronti a rinunciare.

          Il punto di partenza per azzerare la famiglia è stato “normalizzare” il sesso, renderlo il più possibile simile a una forma di attività fisica che non riguardi, come invece è in verità, concetti incisi nella parte più profonda di noi, concetti di purezza e contaminazione, inviolabilità e profanazione, come dice Roger Scruton. Il desiderio liberato da vincoli morali è uno stato d’animo nuovo ed estremamente artificiale. D’altra parte anche l’immortale Sally lo dice a Harry, dopo che hanno fatto l’amore. “Perché ti comporti come se fosse cambiato tutto?” – chiede lui. “Perché è cambiato tutto”.

          Il desiderio riguarda non semplicemente un corpo, ma una persona: il vero desiderio è compromettente e minaccioso perché è una supplica che chiede reciprocità. Quando si entra nella stanza segreta in cui si trasmette la vita, la posta in gioco è altissima. La visione di questo luogo sacro o è affascinante, se entri togliendoti le scarpe, o è tremenda, se vai per distruggere, ma non si può mai dire che sia una visione neutra. Allora ci si copre la testa, come entrando in un tempio (va be’, nelle nostre chiese ormai si entra anche coi pantaloncini, e col cellulare acceso…).

          La libertà sessuale apparentemente conquistata ha un prezzo molto alto, e lo pagano per primi i figli che intanto sono pochi, e poi scontano una molto minore sicurezza, e un minore senso di appartenenza a una comunità organizzata e dotata di punti di riferimento stabili. Una società non più neanche liquida, ma addirittura coriandolare, dove cioè i legami che si stavano liquefacendo si sono definitivamente spezzati.

          Per la cronaca, io remo contro, e in casa mia si celebrano sette o otto matrimoni al giorno: le avventure dei personaggi delle mie figlie, che siano Barbie, principesse, scoiattoli o bambine col naso a bottone, si concludono sempre con una solenne promessa di fedeltà eterna. Infatti i protagonisti della storia base, se è ora di cena e bisogna fare presto, sono almeno un lui, una lei (lo so, siamo un po’ arretrati e politicamente scorretti, ma da noi si sposano sempre e solo un maschio e una femmina) e “quello che dichiara”, cioè il celebrante. Non necessariamente un sacerdote, perché nel caso di matrimoni tra una gallina e un cavallo, o tra due dinosauri è ammesso il rito civile, dal momento che – lo so, anche qui siamo politicamente scorretti – gli animali non hanno un’anima spirituale e immortale.

          Quando due si sposano, non sono più solo lui e lei, ma una terza cosa, una cosa sola. Una terza cosa che gli psicologi chiamano in tanti modi, ma che noi credenti chiamiamo sacramento, operato dallo Spirito Santo e arricchito dai suoi doni, che sono amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, mitezza, dominio di sé. Questi regali Dio li fa a tutti i figli che glieli chiedono, anzi più che mandarceli ce ne inonda, non per lui o per lei, ma per quella cosa nuova che loro due sono insieme.

          A questo punto devo dire qual è in assoluto la cosa più importante, sconvolgente, esplosiva che ho imparato sull’amore, quella che vorrei tatuarmi sul dorso delle mani per costringermi a leggerla centinaia di volte al giorno, e provare a vedere se la imparo: l’amore vero è preterintenzionale. L’amore vero c’è, e regge, quando supera la disillusione reciproca che viene dal capire che l’unione simbiotica, facile, spontanea non esiste. Non fuori dai film. Non fuori dal periodo della conquista e della seduzione. Non all’impatto con la realtà, con la fatica, con le pappe i mutui i figli adolescenti le rughe e le piccole idiosincrasie.

          Quando tu però ce la metti tutta per essere bella, e lui per essere nobile, accettando quasi la morte dell’amore, di come è inteso secondo la vulgata almeno qui in occidente – farfalle nello stomaco e violini che suonano e batticuore e reciprocità facile e spontanea – quando tu metti una croce su tutto questo, e accetti di morire a tutto quello che desideravi, o credevi di desiderare, alle tue attese e ai progetti, e di morire ogni giorno, di portare questa ferita sempre aperta, di lavorare sui tuoi difetti – la donna sulla volontà di dominio, l’uomo sull’egoismo – senza aspettare che qualcuno lo riconosca, allora, quasi per caso, per un incontro tra due che decidono di fare entrambi questo immane lavoro – e spesso la decisione non è simultanea – allora ci si può amare anche al di là delle proprie intenzioni. Si incontrano così due persone che stanno cercando di essere belle e nobili, e che hanno rinunciato a dominarsi l’una con l’altro, a prevalere, ad adottare tattiche. Due persone, infine, che non si consegnano neanche totalmente all’altro, alla sua parte di male, che non la assecondano, come Erec che nel racconto di Chrétien de Troyes vince in torneo la principessa, Enide, e per compiacerla rinuncia alla vita cavalleresca per godere senza interruzione del loro amore, e lei dopo un po’ gli dice “era meglio quando non mi davi retta”, perché se lui perde la sua nobiltà lei finisce per distruggerlo.

          Questo tipo di amore, preterintenzionale, è una grandezza che non ha nulla di romantico, non un esaltato ardore, ma – come dice Denis de Rougemont – la più sobria e quotidiana follia, cioè una paziente e tenera applicazione della fedeltà, una fedeltà osservata perché ci si è impegnati e perché, con il più profondo non conformismo, non si crede al potere rivelatore della spontaneità, dell’immediatezza e della molteplicità delle esperienze. Una fedeltà che fonda e costruisce la persona, persona che è una vera e propria opera. Un’opera che si fonda prima di tutto sulla fedeltà a qualcuno che, nel caso del matrimonio, è una vita che mi è alleata, miracolosamente, per tutta la vita.

          La fedeltà a un’opera che mi trascende può far nuove tutte le cose, anche per quei due che si sono sposati da bambini viziati e irresponsabili solo per fare una bella festa e dare una nuova spinta a un rapporto vecchio e stanco, per quelli che si sono consumati in un fidanzamento dove hanno bruciato tutta la passione senza lasciare niente, per i due che hanno convissuto e fatto calcoli di ragioneria per decidere quando era il momento di far contenti mamma e papà, per quel matrimonio nato per scommessa, e che sembrava reggersi con lo sputo, solo perché era in arrivo un bambino, e poi per quei matrimoni in cui lui è diventato sempre più egoista e lei sempre più dominatrice, per la mia amica querula e rompiscatole, e per il marito che se la svigna appena può, per l’altra che ha tradito e poi alla fine è tornata a casa, per quella che ha abortito e non riesce a perdonarsi ma non vuole ammetterlo, e per l’altra ancora, dominatrice tentacolare, e per lui che sembra una femminuccia e le va dietro come un cagnolino, per quei due genitori completamente schiavi dell’orribile treenne già imbolsito dalle troppe merendine.

          Qualunque sia lo sbaglio o anche l’orrore che un uomo e una donna abbiano alle spalle è sempre adesso il momento opportuno, è sempre qui che ci si gioca l’eternità, è sempre adesso che la grazia può far nuove tutte le cose.

Paola de Groot

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