Studiare è come appassionarsi a qualcosa di cui non comprendiamo tutto subito, ma che pian piano va delineandosi come un bel tappeto finito il cui intreccio nel retro non era prima comprensibile.
A volte le mie ore in classe iniziano con una storia come questa: Un rabbino, saggio e timorato di Dio, una sera, dopo una giornata passata a consultare i libri delle antiche profezie, decise di uscire per la strada a fare una passeggiata distensiva. Mentre camminava lentamente per una strada isolata, incontrò un guardiano che camminava avanti e indietro, con passi lunghi e decisi, davanti alla cancellata di un ricco podere. “Per chi cammini, tu?”, chiese il rabbino, incuriosito. Il guardiano disse il nome del suo padrone. Poi, subito dopo, chiese al rabbino: “E tu , per chi cammini ?”. Questa domanda si conficcò nel cuore del rabbino.
Poi apro il dibattito in classe. Dinanzi allo studio e alle fatiche che ne derivano, dobbiamo fermarci o porci la domanda “per chi cammino?”. «Cosa significa» chiede Samuele? Rispondo: «Spesso crediamo di essere nel giusto, di fare tutto meglio di altri, di essere sulla retta via; lo pensiamo in buona fede, ma questo non basta. Non ti sembra a volte che le tue scelte personali in materia di studio e quelle dei tuoi compagni puntino verso il basso, verso il minimo indispensabile, piuttosto che verso l’alto o a prendere il largo?». Riprende Samuele: «Allora, Prof., in questi anni di duro studio dobbiamo sempre porci le domande “perché studio? Cosa vuol dire per me studiare? Come vivo lo studio?”». Per farmi aiutare richiamo tre massime di don Luigi Giussani e invito i ragazzi a scrivere: valorizzare il positivo in ciò che si studia; simpatia verso gli autori che si studiano, cercando di capirli; cercare prima l’essenziale, poi il particolare.
Poi Carla interviene così: «Ma possibile che non ci sia una cosa che non richieda fatica, neanche quelle belle? Figuriamoci lo studio che così affascinante non è!». Mi vengono in mente delle parole che mi furono dette da una Prof.ssa ai tempi del liceo e che tengo scritte in un prezioso libretto: «Studiare è come appassionarsi a qualcosa di cui non comprendiamo tutto subito, ma che pian piano va delineandosi come un bel tappeto finito il cui intreccio nel retro non era prima comprensibile». Per Carla e la classe riprendo di nuovo don Giussani che, a proposito dello studio, diceva che in latino studere è un termine potente, è l’essere attirato dall’essere, come il giovane dalla giovane. Allora chi realmente cerca il vero, da tutto si fa aiutare per il vero. Comprendiamo, dunque, che non c’è niente del nostro stare sui libri o in aula ad ascoltare o a scrivere che sia lontano dal vissuto di tutti i giorni, dalle passioni persino dalla fede. Certo la fatica è tanta, spesso non trova soddisfazioni, troppe volte non c’è un riconoscimento da parte dei docenti o dei genitori, e così tutto diventa più pesante, si mostra anche inutile e incomprensibile. C’è comunque un lavoro personale da fare che può ragionevolmente essere sintetizzato in questi passi:
a) SINTESI: - Cercare all'interno della materia qual è la realtà in questione, "di che cosa si sta parlando". La memoria permette di ripetere parole scritte su un libro, ma la ragione si mette in movimento solo quando si accorge che la realtà esiste. - Cercare un filo conduttore che leghi i diversi elementi del reale e che si prolunghi fino a sé ed alle proprie domande sulla realtà.
b) SOLIDARIETÀ concreta di persone con le quali studiare che già sono avanti nel cammino.
c) RICERCA: lo studio volto alla ricerca esercita un fascino imprevedibile.
d) FATICA dello studio: si supera solo nella passione per le cose che si studiano ed in una compagnia.
Marco Pappalardo
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