Suicidio ed eutanasia, figli dello stesso dio

Suicidio ed eutanasia. L'uno scivola nell'altra e hanno di solito gli stessi tifosi. L'eutanasia si differenzia dal suicidio per il fatto che il paziente sta già morendo; ma quanti chiamano eutanasia, la morte attiva del disabile grave, magari che necessita di un forte aiuto medico, ma che non è in pericolo di vita?

Suicidio ed eutanasia, figli dello stesso dio

da Quaderni Cannibali

del 10 gennaio 2011

 

          La Clinica Menninger è stata la prima e più famosa clinica psichiatrica Americana. E’ un modello per ogni successivo sviluppo di trattamento delle malattie mentali. 

          Il Bulletin of the Menninger Clinic dell’autunno 2010, così si esprime: «Il suicidio può essere un atto di disperazione, rabbia, o fuga da un dolore intollerabile associate con un disturbo precedente dei legami familiari, perdita di rapporti interpersonali e percezione di mancanza di supporto sociale».

          Non ci sembra di aver letto che si tratta di un atto di “alta dignità”, di libera scelta, di coraggiosa decisione, come invece è apparso sui giornali italiani e non solo ogni volta che si vuol aprire la porta alla sua liberalizzazione. Non ci sembra perché non lo è. Il suicidio è un’espressione della solitudine umana, e chi inneggia al suicidio inneggia alla solitudine. La rivista succitata mette tre punti per la prevenzione del suicidio: “coesione familiare, adesione alla famiglia e formazione di una nuova famiglia”. Già , avete letto bene: la tanto vituperata famiglia come base di prevenzione del suicidio. Sarà un caso allora che proprio le stesse forze che predicano per la “fine” della famiglia predichino anche per l’apertura al suicidio? Queste considerazioni non vengono dalla lettura del vangelo, ma di un testo ufficiale di psichiatria: c’è di che riflettere.

           La rivista specialistica Suicide and Life-threating Behavior nel numero del dicembre 2010 spiega che si è più a rischio di ideazioni suicidarie se si è «donne, con basso reddito, non cristiane, o uomini non sposati». Ci sembra anche questo significativamente confermare che suicidarsi non è un atto di alta scelta (perché quelli sposati sarebbero preclusi dalle “alte scelte”?) e soprattutto non ritroviamo tra i fattori predisponenti magari una “alta coscienza sociale” o “profonde convinzioni filosofiche”. Ma anche qui sembra proprio che la famiglia aiuti a non pensare ad ammazzarsi.

          Allora perché tanta foga a far passare il suicidio come un atto cui inchinarsi invece di essere un atto da prevenire? Perché arrivare al punto di incriminare chi si metterà di mezzo tra un suicida e il treno sotto cui sta per buttarsi, per aver privato la vittima di “decidere autonomamente”?

           Non dimentichiamo che la religione ufficiale dell’Europa unita, quella che condanna l’Irlanda perché democraticamente non ha permesso un aborto, è la religione dell’autonomia, che vuole ognuno incompatibile con l’altro (“La mia libertà è quella che finisce dove inizia la libertà dell’altro”, ricordate questo “dogma”?) e che invece ci lascia tutti soli ma “liberi” di far quello che vogliamo dentro la nostra stanzetta: abortire e gettar via il nostro figlio-embrione, drogarsi, amputarsi un dito senza motivo di salute (ora si chiama “automutilazione non medica” e c’è chi sostiene che debba essere aiutata dal medico) o suicidarsi. E’ la religione delle stanzette chiuse, delle persone spaventate che sanno concepire la vita solo a certe condizioni, quelle imposte dalla pubblicità o dal regime di turno. Ed è una conseguenza di una violenza. Come il suicidio.

           D’altronde vari studi mostrano come i suicidi di solito seguano eventi tragici della vita: malattie, licenziamenti eccetera: e allora ci domandiamo se sia scopo della società civile far superare il disagio e i drammi o superarli ignorandoli e aprendo le camere della morte.

           Attenti infine: suicidio ed eutanasia sono figli dello stesso dio: l’uno scivola nell’altra e hanno di solito gli stessi tifosi. L’eutanasia si differenzia dal suicidio per il fatto che il paziente sta già morendo; ma quanti chiamano eutanasia, la morte attiva del disabile grave, magari che necessita di un forte aiuto medico, ma che non è in pericolo di vita? Certo, le cure che il paziente rifiuta non si devono somministrare per forza, se il paziente è in sé per rifiutarli con libertà e coscienza. Ma l’eutanasia si basa sul far credere che esista una morte indegna: ma è indegno il nostro nonno, padre, amico morto stringendo con paura e speranza la mano della figlia? Ed è più degno morire con un’iniezione come un cavallo azzoppato?

           Anche la richiesta di morire prima del tempo può cambiare se cambiano le condizioni ambientali, ci mostra la scienza: perché allora tanto strepito sui media per chi vuole favorire la libertà di morire e tanto poco per chi vuole prevenire, accompagnare, per chi fa ricerca per curare?

 

Carlo Bellieni

http://www.labussolaquotidiana.it

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