Commentary e Catholic World hanno aperto i fuochi di artificio negli Stati Uniti su Superman Returns, che è arrivato adesso anche in Italia: il film, sostengono, è una metafora del cristianesimo, con un'enfasi decisamente cattolica.
del 05 ottobre 2006
Curiosamente, gli unici a protestare sono stati alcuni studiosi di comics ebrei specialisti di Superman come Danny Fingeroth, autore del brillante Clark Kent in Disguise: Jews, Comics and the Creation of the Superhero, o Simcha Weinstein – che oltre a specialista di supereroi è anche un rabbino – i quali hanno ricordato che i due creatori di Superman, Jerry Siegel e Joe Shuster, erano ebrei, e che i nomi che Superman e suo padre avevano sull’originario pianeta Krypton, Kal-El and Jor-El, finiscono con una desinenza ebraica che rimanda al nome di Dio, e che la storia del viaggio di Superman da Krypton alla Terra assomiglia più a quella del piccolo Mosé che non a quella di Gesù Cristo. Tutto questo, aggiungono, non era sfuggito a Joseph Goebbels, che si diede pena di scrivere un articolo nell’aprile del 1940 sul giornale delle SS Das Schwarze Korps, denunciando Superman come un eroe “tipicamente ebraico”.
 
In principio era Smallville
Il fatto, però è che Superman Returns non mette in scena il Superman dei fumetti, tanto meno di quelli degli anni 1930 dei geniali Siegel e Shuster. Il copione, cui hanno messo mano molte persone, tiene conto di un dato fondamentale: da quando negli Stati Uniti sono sparite le edicole e i comics si comprano solo nelle fumetterie e nelle grandi librerie, il pubblico soprattutto giovanile dei lettori di fumetti si è drasticamente ridotto. Gli amanti della popular culture – quella cultura che insiste sulla serialità e sul ripresentare settimana dopo settimana gli stessi personaggi – si sono rifugiati soprattutto nelle serie televisive. Smallville, la serie televisiva con il giovane Superman, è un successo strepitoso oltre che una saga dei buoni sentimenti.
I puristi potrebbero obiettare che quello di Smallville non è il Superman di Siegel e Shuster, ma il film è fatto per essere visto soprattutto da una generazione che conosce il supereroe soltanto dalla televisione, le allusioni a Smallville si sprecano, e l’operazione al botteghino ha funzionato alla grande.
Una volta chiarito che rispetto ai fumetti – dove, allo stato attuale della storia, Superman non deve conquistare Lois Lane perché i due sono regolarmente sposati (s’intende, ufficialmente Lois ha sposato Clark Kent, ma dopo avere finalmente, dopo sessant’anni, capito la sua vera identità) – si può cambiare tutto, nulla vieta anche di inserire nuovi significati religiosi. Definito dal New York Times “il film perfetto per il dopo 11 settembre” Superman Returns ruota intorno a una domanda: il mondo in crisi, in preda a minacce terroristiche inimmaginabili (il villain Luthor nel film ha il ruolo di Bin Laden) ce la può fare da solo o ha bisogno di un salvatore religioso?
Nel film si suppone che Superman sia sparito per qualche anno, senza neanche dire buonasera alla sua innamorata perpetua Lois Lane, per andare a cercare le tracce del suo passato su Krypton. Il cattivo Lex Luthor ne ha approfittato per predisporre un piano per distruggere vari continenti, che naturalmente sarà sventato dal ritorno del supereroe. Lois Lane ha sfogato la sua frustrazione non solo vincendo il premio Pulitzer con un articolo dal titolo Perché il mondo non ha bisogno di Superman, ma anche andando a convivere con un onesto pilota di aerei. Tornando, Clark Kent – senza che nessuno si chieda perché riappaia regolarmente quando riappare Superman, ma questo gioco va avanti da settant’anni ed è inutile rovinarlo – trova Lois al centro di una famigliola felice, dove c’è anche un bel bambino.
 
Abbiamo bisogno di supereroi?
Il cuore dell’articolo da Pulitzer della seducente giornalista è che “il mondo non ha bisogno di un salvatore”: soprattutto gli americani, individualisti per natura, ce la possono fare benissimo da soli. Ma Lois Lane è la prima a scoprire a sue spese che è tutto il contrario: quando i piani di Luthor si disvelano, se non ci fosse Superman morirebbero milioni di persone e l’intero Nord America sprofonderebbe nelle acque.
Invece, per fortuna, Superman è tornato. Luthor si era preparato con massicce dosi di kryptonite, la sostanza fatale al supereroe: così per un momento sembra che il Male trionfi e che Superman muoia, ma un’infermiera che va a sincerarsi delle condizioni del quasi defunto in ospedale trova il letto vuoto – che qualcuno ha paragonato alla tomba vuota dei Vangeli – e Superman, dopo essersi volontariamente sacrificato per salvare il mondo fermando da solo una pioggia di acqua, roccia e kryptonite mettendosi in una posizione che ricorda quella di un uomo in croce, risorge per affidare la sua missione al bambino di Lois. Il pargolo, nel frattempo, ha salvato la mamma dimostrando poteri sospetti: non è figlio del (peraltro eroico) pilota, ma è il frutto di una lontana scappatella della giornalista con Superman. Nelle scene finali il simbolismo religioso si confonde: non si capisce più se il salvatore è il padre o il figlio, con il pilota in questo caso nel ruolo di un onesto San Giuseppe.
Un salvatore con un figlio, per di più illegittimo, potrebbe far pensare a Dan Brown. Ma le cose stanno diversamente, perché qui tutto si gioca sul piano dei simboli, non del revisionismo storico. È Lois Lane a capire quale morale ne va tratta: riscrive l’articolo del Pulitzer al contrario come Perché il mondo ha bisogno di Superman, e conclude che anche gli americani hanno bisogno di un salvatore.
Una morale cattolica più che protestante, perché le conclusioni vanno sia contro il razionalismo sia contro l’individualismo tipico di un certo protestantesimo americano. Non è il “libero esame” di un testo sacro con cui il credente stabilisce un rapporto individuale, ma la comunità raccolta intorno a una persona che porta la salvezza a un mondo minacciato dal terrorismo.
Il film così – nonostante gli interpreti non eccelsi – funziona. Guardandolo, mi è venuto in mente il successo che sta avendo negli USA un libro scritto da un professore della Columbia University, Richard Bushman, e dedicato al fondatore dei Mormoni: Joseph Smith. Rough Stone Rolling (Knopf, New York).
L’autore è un accademico mormone che ha costruito la sua carriera in università non gestite dalla Chiesa mormone (che pure ne ha di prestigiose): dichiara apertamente la sua fede ma si sforza di mostrarsi obiettivo e il libro, per quanto monumentale, si rivela di agevole e affascinante lettura e ha conquistato anche i non addetti ai lavori. Al di là delle discussioni sul rapporto fra il testo e l’autore – può un fedele mormone scrivere davvero obiettivamente su un personaggio così controverso? – l’opera di Bushman è piaciuta perché mette l’accento su un tema fondamentale della storia americana.
 
Il bisogno della religione
Gli americani della Frontiera del XIX secolo erano certamente individualisti, e in religione prediligevano un individualismo protestante quando non un razionalismo ispirato da volgarizzazioni deiste dell’illuminismo. Joseph Smith, fondando la Chiesa dei Mormoni, venne a proporgli tutto il contrario: la necessità per sopravvivere di rivelazioni profetiche che arrivavano direttamente dall’Onnipotente a un profeta che guidava in modo carismatico e autoritario una Chiesa fondata sulla restaurazione di quel sacerdozio che il protestantesimo aveva negato, fino a costruire una teocrazia.
Con la teocrazia, Smith esagerava, e infatti finì linciato da una folla inferocita nel 1844. Ma la sua lezione sulla necessità di una religione non semplicemente individualista, gerarchica e comunitaria, è parte di un ripensamento dell’America su se stessa che sempre emerge nei periodi di crisi. L’America si ripensa anche dopo l’11 settembre. Si scopre più comunitaria e più religiosa. Per una nuova America, Hollywood offre anche un nuovo Superman: che non è quello dei suoi creatori degli anni 1930 ma è un potente simbolo a suo modo davvero religioso.
Massimo Introvigne
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