Siamo sicuri che privare una nazione di alcune festività, facendo lavorare di più i cittadini, sia la ricetta giusta per far ripartire il Pil? Un'occasione persa: «La riforma non ha risposto alle esigenze delle imprese, non rilancerà né l'occupazione, né l'economia e, relativamente alla nuova disciplina sull'articolo 18, determinerà numerose difficoltà in sede interpretativa».
Intervista a Stefano Giubboni
TAGLIO DELLE FESTIVITÀ: LAVORARE PIU' GIORNI PER AUMENTARE LA PRODUTTIVITÀ
Il lavoro è uno dei fattori fondamentali di un’economia sana e funzionante. Su questo non ci piove. Ma siamo sicuri che privare una nazione di alcune festività, facendo lavorare di più i cittadini, sia la ricetta giusta per far ripartire il Pil? Detta così, sembra una misura piuttosto grossolana. Eppure, è quanto il governo si starebbe accingendo a fare. La forbice dell’esecutivo, quindi, si abbatterebbe sul primo maggio, sul 25 aprile e sul 2 giugno. E, se non bastasse, pure sul primo novembre e sull’8 dicembre. L’idea è quella di fare ricadere tali festività nella domenica più vicina. Ma, ovviamente, tutto ciò non basterà.
Stefano Giubboni, docente di Diritto del lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, ci spiega perché. «Mi sembrano ricette dal sapore antico. Da anni, in seno alla comunità accademica, si dubita che possano funzionare e, a maggiore ragione, è improbabile che possano farlo ai giorni nostri. Non credo, quindi, che lavorare di più, rinunciando alle festività, aumenti la produttività e, di convesso, il Pil. Siamo, infatti, in una fase di crisi acuta al punto tale che un provvedimento del genere rappresenterebbe una goccia nel mare».
Va anche detto che l’ipotesi non provocherebbe danni particolari. Si teme, infatti, l’ulteriore stretta sui consumi. Soprattutto, per quanto riguarda le strutture alberghiere e l’indotto del turismo. «I consumi, in realtà, hanno subito un crollo da tempo e sono, oramai, pressoché congelati; molte famiglie hanno subito una decurtazione sostanziale del proprio potere d’acquisto e già adesso sono costrette a rinunciare alle vacanze». Il problema, in ogni caso, è un altro. Ed è macroscopico. «Chiunque si accorge da sé che il nostro mercato occupazionale è profondamente in crisi. Ovviamente, non possiamo imputarne la colpa alla scarsa efficacia della riforma del lavoro. E’ stata varata da poco più di una settimana ed è troppo presto perché possa produrre delle conseguenze. Sta di fatto che, anche in futuro, non ne produrrà. A fronte della sua inutilità e di un dramma come l’assenza di lavoro, misure in stile anni ’70 quali l’abolizione di alcune festività appaiono velleitarie». Stupisce, in ogni caso, che si sia dato tanto peso a una riforma "inutile".
«Le sue finalità sono state meramente politiche. Si intendeva dare un messaggio ben preciso: l’Italia, uscita dall’emergenza del populismo insisto nella gestione berlusconiana, avrebbe potuto riprendere una strada virtuosa di riforme condivise in Parlamento, molte delle quali ritenute necessarie da tempo. Qualunque discorso economico ed interpretativo è stato sopraffatto da questa logica politica».
Un’occasione persa: «La riforma non ha risposto alle esigenze delle imprese, non rilancerà né l’occupazione, né l’economia e, relativamente alla nuova disciplina sull’articolo 18, determinerà numerose difficoltà in sede interpretativa». Oltre al danno, anche la beffa: «Come dimostrano le cronache recenti, non è neppure servita a convincere i mercati della stabilità italiana, né la Merkel della nostra responsabilità». Prevedibilmente, in futuro, resterà tutto inalterato. «Al di là dei meccanismi di monitoraggio messi a punto per poterla varare rapidamente, non credo che la riforma subirà modifiche sostanziali. Anche perché, probabilmente, il prossimo governo opererà in continuità con quello attuale».
Paolo Nessi
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